Il fatto

Il Tribunale del lavoro francese è stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del diniego opposto ad alcuni lavoratori alla fruizione di diversi giorni di ferie maturati e non goduti a causa di prolungate assenze dal lavoro per malattia. Parimenti, era stata negata la relativa indennità sostitutiva per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro era cessato. Tali pretese sono state avanzate entro quindici mesi dal termine del periodo di riferimento di un anno durante il quale il diritto alle ferie era sorto.

Il Giudice nazionale ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per risolvere tre questioni, qui di seguito elencate:

– la diretta applicabilità nei rapporti tra privati dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE in tema di organizzazione dell’orario di lavoro;

– quale sia il periodo ragionevole di riporto delle quattro settimane di ferie riconosciute da detta Direttiva, in presenza di un periodo di maturazione delle ferie stesse pari ad un anno;

– se sia rispettosa della disciplina europea l’applicazione di un periodo di riporto illimitato in assenza di una legislazione interna che disciplini tale riporto.

La decisione della Corte di Giustizia

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 novembre 2023, causa C-271/22, ha risolto in termini positivi la prima questione pregiudiziale, partendo da un’analisi sistematica dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, che, sebbene in via di principio non sia direttamente invocabile in una controversia tra privati, precisa il diritto fondamentale a un periodo annuale di ferie retribuite.

Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, che prevede il diritto, per ogni lavoratore, a ferie annuali retribuite.

Conseguentemente, secondo la Corte, un lavoratore può far valere il diritto alle ferie annuali retribuite nei confronti del suo datore di lavoro, essendo irrilevante che quest’ultimo sia un’impresa privata.

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Con la recente sentenza n. 5288 del 20 febbraio 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che, con riferimento al CCNL per i dipendenti del settore terziario (di seguito il “CCNL”), il periodo di conservazione del posto pari a 180 giorni, da calcolare in un anno solare decorrente dal primo episodio morboso, deve ritenersi riferito sia al comporto secco sia a quello per sommatoria.

I fatti di causa e il processo

La Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva l’appello di un dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto e, in parziale riforma della sentenza resa nel primo grado di giudizio, dichiarava illegittimo il recesso, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav.

La Corte territoriale giungeva alla propria decisione statuendo che “in base al combinato disposto degli articoli 175 e 177 ccnl terziario […] se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto di 180 giorni”. La Corte d’Appello, dunque, avendo accertato che nel corso dell’anno solare il dipendente non avesse totalizzato 180 giorni consecutivi di malattia, riteneva che non potesse configurarsi il superamento del periodo di comporto posto a fondamento del recesso datoriale.

Avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Società proponeva ricorso per cassazione, articolando due motivi di ricorso afferenti alla violazione e falsa applicazione dell’art. 175 del CCNL e deducendo che tale norma contemplasse un comporto c.d. “per sommatoria” – che, nel caso di specie, era da ritenersi superato dal dipendente – e non un comporto c.d. “secco” come statuito dalla Corte territoriale.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23155 del 2020, respingeva il ricorso promosso dalla Società, statuendo che “qualora all’infortunio succeda, come pacificamente avvenuto nel caso di specie, persino ove senza soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell’insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni solo alla cui scadenza può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto”.

La Società, ravvisando un errore di fatto nella pronuncia resa dagli Ermellini, ricorreva per la revocazione della relativa sentenza, rilevando che l’assunto su cui si fondava la pronuncia era erroneo. Gli atti processuali mostravano, infatti, che le assenze, in due distinti periodi, rispettivamente di 109 e 124 giorni, erano dovute esclusivamente a malattia e non anche ad infortunio come indicato dalla Suprema Corte. 

La sentenza resa dalla Corte di Cassazione all’esito del giudizio di revocazione

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso per revocazione promosso dalla Società, ha preliminarmente rilevato come l’interpretazione adottata dai giudici d’appello non fosse rispondente al tenore letterale dell’articolo 175 del CCNL, laddove la norma contrattuale prevede il diritto alla conservazione del posto “per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare”, senza prevedere alcun riferimento al carattere consecutivo ovvero interrotto delle assenze.

La Suprema Corte ha inoltre statuito che la soluzione proposta dalla Corte d’Appello fosse censurabile anche sulla scorta di un’interpretazione sistematica delle norme, non essendo stata valorizzata la differenza, che il CCNL invece pone, tra l’ipotesi di assenze causate da un unico fattore morboso e la diversa ipotesi in cui concorrono diversi fattori causativi dell’assenza (ossia malattia e infortunio) che rendono operanti due autonomi periodi di comporto.

Sulla scorta di quanto sopra, gli ermellini hanno pertanto precisato che non può trovare accoglimento la tesi secondo cui, in caso di interruzione della malattia, cominci a decorrere un nuovo periodo di comporto nello stesso anno.

Secondo i Giudici di legittimità, dunque, il termine di 180 giorni, calcolato a ritroso dall’ultimo episodio morboso nell’ambito dell’anno solare di 365 giorni, deve applicarsi anche al comporto per sommatoria e non solo al comporto secco.

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Con messaggio 18 novembre 2021, n. 4027, pubblicato sul proprio sito istituzionale il successivo 19 novembre, l’INPS ha chiarito che il decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146, collegato fiscale alla legge di Bilancio 2022, ha modificato la disciplina delle tutele previste durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, tra gli altri, per i lavoratori in quarantena. La norma prevede, infatti, che l’equiparazione a malattia del periodo che il lavoratore del settore privato trascorre in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva viene riconosciuta fino “al 31 dicembre 2021, a fronte di apposito stanziamento. Tale equiparazione non è stata, ad oggi, rifinanziata per il 2022. Ciò significa che a partire dal 1° gennaio 2022, salvo eventuali e future prescrizioni, i lavoratori del settore privato che non possono rendere la prestazione in modalità agile (perché tale modalità sarebbe incompatibile con le caratteristiche della prestazione attesa) e sono costretti a rispettare un periodo di quarantena per contatto stretto di un caso confermato non avranno diritto all’indennità riconosciuta dall’INPS. Infatti, lo stesso INPS nel suo messaggio ha precisato che “si procederà al riconoscimento della prestazione ai lavoratori privati aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia, secondo le consuete modalità, anche per gli eventi verificatisi nel corso del 2021, seguendo un ordine cronologico, come previsto per legge”.

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Con ordinanza no. 26709 del 1° ottobre 2021, la Corte di Cassazione torna ad esprimersi sui profili di legittimità del licenziamento intimato al lavoratore che venga colto a svolgere, durante l’assenza dal lavoro per malattia, attività incompatibili con il suo stato patologico.

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore (affetto da lombosciatalgia acuta) per aver tenuto, durante il periodo di malattia, uno stile di vita (il lavoratore era stato colto nell’atto di sollevare e movimentare sacchetti di terriccio) non compatibile con la patologia che lo affliggeva, ed in ogni caso idoneo a pregiudicarne la guarigione e/o il rientro in servizio.

Nel caso di specie, il Collegio del merito era giunto a tale conclusione, sulla base delle risultanze del nominato ausiliare medico legale il quale aveva dedotto che la sintomatologia riscontrata al lavoratore avrebbe consentito l’espletamento delle mansioni allo stesso affidate nel rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente, oltre che sulla base del giudizio del CTU che aveva rilevato come le attività svolte dal paziente durante la sua assenza per malattia, ove provate, avrebbero prolungato il periodo di guarigione clinica.

Sulla base di tali risultanze, veniva dunque confermato il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva comminata, dal momento che, nel caso di specie, lo svolgimento di altra attività da parte del lavoratore assente per malattia si poneva in aperto contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede oltre che con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione adducendo come primo motivo di impugnazione la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, co. 4, L. 300/1970, deducendo che le condotte poste in essere durante il periodo di malattia costituissero meri incombenti di vita quotidiana (rimarcando la modestia dello sforzo compiuto, consistito a suo dire nel trasporto di “due semplici sacchetti”). Deduceva inoltre che l’effettività dello stato patologico da cui era affetto dovesse ritenersi comprovata alla luce delle certificazioni mediche versate in atti.

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Sebbene il trattamento di cassa integrazione disposto per tutta la forza aziendale (o un intero reparto) prevale sul trattamento di malattia, il periodo di comporto continua a decorrere. Ne consegue che è legittimo il licenziamento del dipendente che abbia superato il comporto in tali circostanze.

È questo quanto affermato dal Tribunale di Foggia con ordinanza del 17 luglio 2021, il quale, chiamato a pronunciarsi sulla validità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha dichiarato che anche se il trattamento di integrazione salariale sostituisce, in caso di malattia, la relativa indennità giornaliera, il datore di lavoro non può autonomamente modificare il titolo dell’assenza del dipendente, con la conseguenza che il periodo di comporto in caso di malattia certificata continua a decorrere sino a quando non sia il dipendente a richiedere il mutamento dell’imputazione della sua assenza dal lavoro.

In particolare, nel caso di specie, un dipendente veniva licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Il dipendente, dunque, agiva in giudizio chiedendo l’accertamento della illegittimità del provvedimento espulsivo, deducendo di essere stato collocato, unitamente a tutti gli altri dipendenti della Società datrice di lavoro, in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria con causale Covid-19, la quale aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui stava fruendo. A sostegno della propria tesi, il dipendente richiama l’art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, nonché la Circolare INPS n. 197/2015, in base al quale “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”. Il Tribunale nel respingere il ricorso promosso – richiamando le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro con sentenza n. 16/2021 – ha sottolineato che con il citato art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, il Legislatore ha inteso esclusivamente prevedere una diversa imputazione della prestazione economica ricevuta dal dipendente in caso di fruizione di un periodo di integrazione salariale, che resta, comunque, di competenza dell’INPS (come nel caso della malattia), non volendo intervenire sulla causale dell’assenza che attiene invece al rapporto privato tra lavoratore e datore di lavoro. Tale diversa imputazione, dunque, nulla ha a che vedere con il comporto e sul titolo della sospensione della prestazione lavorativa. È infatti da escludere, secondo il Tribunale, che il datore di lavoro possa arbitrariamente mutare il titolo dell’assenza del lavoratore quando lo stesso è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di garanzia costituzionale, quale il diritto alla salute.

In quest’ottica, il Tribunale ricorda che il mutamento del titolo dell’assenza è consentito sole se sia il lavoratore a richiederlo, come ad esempio avviene quando il dipendente sostituisce alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. In questo caso, grava poi sul datore di lavoro, accettare o meno tale richiesta e, in caso di rifiuto, dedurre le ragioni organizzative (concrete ed effettive) che hanno portato alla negazione del periodo feriale.

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