La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9790 del 26 maggio 2020, ha colto l’occasione per tornare ad esprimersi sui presupposti di legittimità del patto di non concorrenza ex art. 2125 cod. civ. La Corte di è soffermata ad analizzare nello specifico le finalità dell’accordo, i limiti all’ampiezza del suo oggetto, nonché la natura del corrispettivo da riconoscere al lavoratore a pena di nullità del patto stesso.

I fatti di causa

La pronuncia in commento trae origine da una sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando quanto statuito in primo grado, aveva accolto la domanda di un datore di lavoro di pagamento della penale per la violazione del patto di non concorrenza stipulato con una dipendente con mansioni di private banker. La lavoratrice, a seguito di dimissioni, aveva prestato attività lavorativa presso una società concorrente, operando con la clientela facente parte del portafoglio clienti del precedente datore di lavoro.

La Corte di Appello aveva giudicato valido il patto di non concorrenza ritenendo che nel caso di specie fossero presenti e soddisfatti i requisiti stabiliti dall’art. 2125 cod. civ. Avverso la sentenza della Corte territoriale proponeva ricorso la lavoratrice.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso e nel confermare la legittimità del patto di non concorrenza in esame, si è soffermata, in via preliminare, sulla natura del corrispettivo del patto di non concorrenza confermando che “non ha natura risarcitoria ma costituisce il corrispettivo di un’obbligazione di non facere“.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha colto l’occasione per individuare e definire le funzioni del patto di concorrenza. A giudizio dei giudici di legittimità lo stesso avrebbe la finalità di “salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti”.

All’interno di tale contesto, l’art. 2125 cod. civ. si preoccupa di tutelare il lavoratore subordinato, affinché le clausole del patto di non concorrenza “non comprimano eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti, prevedendo che esse debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità”.

La Suprema Corte si è soffermata quindi ad individuare quali debbano essere i limiti all’estensione dell’oggetto del patto di non concorrenza. In particolare, essa ha affermato che – in assenza di specifiche indicazioni da parte dell’art. 2125 cod. civ. – “si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo dovendo aversi riguardo all’attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda,” .

Il patto di non concorrenza, proseguono i Giudici “può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro (in funzione di tutela della libertà di concorrenza che costituisce, da un lato, espressione della libertà di iniziativa economica e persegue, dall’altro, la protezione dell’interesse collettivo, impedendo restrizioni eccessive della concorrenza) e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ricorrendone la nullità allorché’ la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.

A giudizio della Corte di Cassazione, l’individuazione delle attività in concorrenza tra di loro deve essere effettuata “in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi e/o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato”.

La Suprema Corte ha colto, infine, l’occasione per esprimersi circa il principio di congruità a cui deve ispirarsi la determinazione dell’ammontare del corrispettivo dovuto al lavoratore. La stessa ha ribadito che la previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 cod. civ., va riferita a quei casi in cui siano stati pattuiti “compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”.

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Alla luce dei principi sopra richiamati la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della lavoratrice ritenendo la pattuizione del caso di specie conforme al dettato codicistico. Nella previsione negoziale de qua erano state infatti valorizzate sia la delimitazione del divieto di operare nell’unico settore rappresentato dal private banking e per i medesimi generi di prodotti per i quali la lavoratrice aveva operato presso la Società con la medesima clientela, sia la delimitazione dell’ambito territoriale (Regione Lazio) e cronologico (3 anni). Era stato inoltre pattuito un compenso adeguato (euro 7.500,00 annui per tutta la durata del rapporto di lavoro e regolarmente versati dalla Società).

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La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza 908 del 2 settembre 2019, ha affrontato il tema della validità del patto di non concorrenza assoggettato al diritto d’opzione di cui all’art. 1331 cod. civ. in capo al datore di lavoro.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine dal ricorso presentato da un dipendente il quale, dopo aver rassegnato le dimissioni, aveva richiesto al Tribunale di Monza che venisse accertata e dichiarata la nullità e/o l’inefficacia e/o l’invalidità della clausola relativa al diritto d’opzione apposta al patto di non concorrenza chiedendo, allo stesso tempo, la condanna dell’azienda datrice di lavoro al pagamento del compenso previsto per il patto stesso.

La richiesta del dipendente poggiava sull’assunto per cui il patto, ancorché operante per il periodo successivo alla fine del rapporto di lavoro, si sarebbe perfezionato con la relativa pattuizione, impedendo così allo stesso di progettare il proprio futuro lavorativo e comprimendo di conseguenza la sua libertà.

Il Tribunale, nel rigettare il ricorso proposto dal dipendente, affermava che nella fattispecie in esame era pacifico che la società non avesse esercitato il diritto di opzione e, quindi, che nessun patto di non concorrenza si era concluso tra le parti. Di conseguenza, a parere del Tribunale, nessun diritto al corrispettivo previsto per il patto di non concorrenza poteva essere invocato dal dipendente. Ciò in quanto “tale diritto non è mai sorto (ndr non era mai sorto), non essendosi perfezionato alcun accordo sul punto in ragione del mancato esercizio del diritto di opzione da parte del datore di lavoro”.

Inoltre, il Tribunale – richiamando espressamente un precedente giurisprudenziale (cfr sentenza 13352/2014) – escludeva ogni profilo di nullità della clausola, evidenziando, peraltro, che erano state le parti stesse, nella loro piena autonomia negoziale, “a regolamentare il proprio assetto di interessi”.

Il lavoratore ricorreva così in appello avverso la decisione del Tribunale.

La decisione della Corte d’Appello di Milano

A parere della Corte d’Appello di Milano il mancato esercizio del diritto di opzione da parte della società datrice di lavoro permette di affermare che tra le parti non si era perfezionato alcun accordo e che, di conseguenza, nessun diritto al compenso era sorto in capo al dipendente. Occorre, infatti, considerare che nella struttura tipica prevista dall’ordinamento, “la parte vincolata all’opzione, ossia alla propria dichiarazione, non è tenuta alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale”.

La Corte distrettuale ha rimarcato poi che l’istituto dell’opzione di cui all’art. 1331 cod. civ. si colloca nell’ambito di una più complessa fattispecie contrattuale a formazione progressiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità della proposta del promittente, e, successivamente, dalla (eventuale) accettazione del promissario che, saldandosi con la precedente proposta, perfeziona il nuovo negozio giuridico.

Sempre secondo la Corte d’Appello lo schema di perfezionamento non è dunque quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta.

In buona sostanza il diritto di opzione è un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale.

Non da ultimo la Corte d’Appello ha evidenziato che non si era verificata alcuna compressione della libertà contrattuale del lavoratore. Ciò in quanto egli stesso aveva presentato le proprie dimissioni volontariamente accettando una diversa proposta lavorativa e non aveva dimostrato di aver subito una limitazione dalla mancata comunicazione da parte della società dell’esercizio di opzione.

Alla luce di quanto sopra la Corte d’Appello ha rigettato il ricorso del dipendente avverso la sentenza di primo grado, non ravvisando profili di violazione della legge inerenti al diritto d’ opzione di cui all’art. 1331 cod. civ.