Il Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscrittoil 6 aprile 2021, ha previsto, per i lavoratori rimasti positivi dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi da COVID-19, la riammissione al lavoro solo dopo la negativizzazione del tampone molecolare o antigenico effettuato in una struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario; il referto molecolare negativo necessario per il rientro dovrà essere indirizzato al medico competente. Inoltre, il Ministero della Salute, con una circolare del successivo 12 aprile, ha dettato le procedure da eseguire per il rientro al lavoro dei dipendenti che hanno contratto il virus. In particolare, per i lavoratori per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, il medico competente – previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione – deve effettuare la visita medica preventiva per verificare l’idoneità alla mansione indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia. I lavoratori che presentano sintomi meno gravi di malattia possono rientrare in servizio dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa dei sintomi accompagnato da un test molecolare con riscontro negativo eseguito dopo almeno 3 giorni senza sintomi. I lavoratori positivi ma asintomatici per tutto il periodo, invece, possono rientrare al lavoro dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa della positività, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare con risultato negativo. Infine, il lavoratore che sia un contatto stretto di un caso positivo, deve informare il proprio medico curante affinché rilasci una certificazione di malattia salvo che lo stesso non possa essere collocato in regime di lavoro agile. In tal caso, il lavoratore, dopo aver effettuato una quarantena di 10 giorni dall’ultimo contatto con il caso positivo, potrà essere riammesso in servizio dopo essersi sottoposto a tampone molecolare o antigienico, informando il datore di lavoro per il tramite del medico competente, ove nominato.

Con il Decreto-Legge n. 149/2020 (c.d. “Decreto Ristori-bis”), l’ordinamento italiano ha recepito la Direttiva 2020/739 del 3 giugno scorso (la “Direttiva”). Quest’ultimaha modificato l’Allegato III della Direttiva 2000/54/CE recante le norme per la protezione dei lavoratori contro i rischi per la loro salute e sicurezza che derivano, o possono derivare, dall’esposizione durante il normale svolgimento delle attività lavorative agli agenti biologici ivi individuati. Nello specifico il nuovo Coronavirus (“Covid-19”) è stato catalogato come agente responsabile di gravi malattie nell’uomo, presentando un serio rischio in particolar modo per i lavoratori anziani e per coloro che possiedono una patologia pregressa o una malattia cronica. IlCovid-19 viene, così, inserito nell’elenco degli agenti biologici che possono causare malattie infettive all’uomo (agente biologico – gruppo di rischio 3). Conseguentemente al recepimento della Direttiva è stato modificato il D.Lgs. 81/2008 (cd. Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). Diventano, quindi, più rigorosi gli adempimenti gravanti sui datori di lavoro svolgenti attività che espongono i lavoratori a detto rischio, prioritariamente, laboratori, servizi veterinari nonché nei processi industriali che comportano l’uso dell’agente biologo o l’esposizione ad esso. Ma anche gli altri datori di lavoro non possono considerarsi del tutto esclusi, poiché, ai sensi dell’art. 28 del D,Lgs, 81/2008, la valutazione di cui all’art. 17 del medesimo decreto deve riguardare “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori”.

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Il Tribunale di Treviso, con decreto del 1° luglio 2020, ha osservato che la costituzione del Comitato interno ex art. 13 del Protocollo Condiviso del 14 marzo 2020 (successivamente aggiornato il 24 aprile u.s.)  per l’applicazione e la verifica delle regole in esso stabilite all’interno dei luoghi di lavoro deve intervenire nell’ambito di ciascuna unità produttiva locale. Se l’impresa è dotata di più sedi aziendali, non è sufficiente la costituzione di un comitato a livello centrale.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine da un procedimento ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori attivato da una organizzazione sindacale nei confronti di una società di servizi di pulizia e sanificazione svolti all’interno delle strutture ospedaliere. In particolare, l’organizzazione sindacale lamentava la condotta antisindacale della società che non avere costituito, all’interno dell’ospedale di Treviso, il Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del “Protocollo  condiviso di regolamentazione delle misure per il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

La società si era limitata a costituire un unico Comitato centrale per la sede operativa Nord Est del quale, tuttavia, non facevano parte né erano in qualche modo state coinvolte le RSA e RLS Cisl dell’ospedale di Treviso.  

Infine, l’organizzazione sindacale si doleva della gestione deficitaria dell’emergenza sanitaria in quanto non erano mai stati effettuati i controlli sullo stato di salute dei lavoratori impegnati nei servizi di pulizia presso l’ospedale neanche al rientro di costoro da periodi di malattia.

Le motivazioni del Tribunale  

Secondo il Tribunale trevigiano la previsione del Protocollo Condiviso relativa alla costituzione “in azienda” di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo interno con “la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e delle RLS”, deve essere letta nel senso che i comitati debbono essere attivati nella specifica realtà territoriale e ambientale in cui si collocano le attività lavorative aziendali. Ciò “in quanto luogo dove si manifestano le concrete e specifiche esigenze da monitorare, attenzionare, risolvere in modo condiviso”.

Pertanto, la condotta dell’impresa che non solo omette la costituzione dei Comitati a livello locale, ma anche non coinvolge nella costituzione del Comitato centrale le RSA delle sedi aziendali territoriali è configurabile quale condotta antisindacale poiché lesiva di prerogative sindacali così come specificamente previste e conformate dalla normativa anti Covid.

La ratio di tale conclusione risiede nel rilievo che la pandemia ha avuto una diffusione irregolare sul territorio italiano che ha richiesto interventi e risposte differenti sulla base delle specifiche dinamiche assunte localmente dalla diffusione del coronavirus.

Il Tribunale, infine, ha colto l’occasione per specificare che il carattere vincolante del Protocollo Condiviso deriva dall’aver assurto quest’ultimo rango di fonte primaria a seguito del suo recepimento da parte del DPCM 26 aprile 2020.

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Infortuni sul lavoro: Responsabilità datoriale non automatica

Infortuni da Covid-19: i chiarimenti forniti dall’INAIL con la circolare 22/2020

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10404 del 1° giugno 2020, in linea con un consolidato orientamento, ha espresso il principio in base al quale il riconoscimento dell’infortunio o della malattia professionale da parte dell’Inail non comporta automaticamente la responsabilità del datore di lavoro per i danni sofferti dal dipendente.

I fatti di causa

Il lavoratore di una società di trasporto ricorreva giudizialmente al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico provocatogli dalla patologia cui era affetto (afantrite), contratta – a suo dire – a causa dell’inadempimento da parte della stessa dell’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 cod. civ.

La Corte d’appello territorialmente competente, nel confermare la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso presentato, evidenziava che il lavoratore aveva omesso di fornire la prova del dedotto inadempimento mentre la società convenuta aveva provato “di aver ottemperato nel tempo a tutti gli obblighi normativamente previsti in tema di sicurezza sul lavoro”.

Il lavoratore ricorreva così in cassazione affidandosi a due motivi a cui resisteva la società con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ha osservato innanzitutto che (i) la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende da norme specifiche e, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla disposizione di ordine generale di cui all’art. 2087 cod. civ. Disposizione questa che costituisce la norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione.

Tuttavia, secondo i Giudici di legittimità, tale responsabilità non può dirsi integrata ogniqualvolta venga diagnosticata una malattia professionale ad un lavoratore. Infatti, in presenza di tali circostanze, incombe proprio sul lavoratore l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento datoriale ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno subìto.

Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, il lavoratore non ha fornito la prova dell’asserito inadempimento datoriale e, anzi, la società sua datrice di lavoro ha dimostrato di aver ottemperato a tutti gli obblighi normativamente previsti in tema di sicurezza.

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La decisione della Corte di Cassazione in esame si pone in linea con le recenti circolari 13 e 22 emesse dall’INAIL rispettivamente il 3 aprile 2020 e il successivo 20 maggio in tema di equiparazione del contagio da Covid-19 all’ipotesi di infortunio su lavoro.

Non solo. La decisione è conforme anche al dettato normativo di cui all’art. 29 bis dalla Legge 5 giugno 2020 n. 40, di conversione del Decreto liquidità, in materia di obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19.

Infatti, detto articolo dispone che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio Covid-19, i datori di lavoro adempiono all’obbligo ex art. 2087 cod. civ. mediante (i) l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guidadi cui all’art. 1, comma 14, del DL 16 maggio 2020, n. 33, nonché (ii) l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.

Nell’ipotesi in cui non trovano applicazione le predette prescrizioni rilevano, secondo quanto disposto dalla disposizione de quo, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

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Il decreto Rilancio interviene con previsioni anche inerenti alla salute e sicurezza sul lavoro, a volte introducendone ex novo, altre volte ampliando il contenuto di misure già previste in altre fonti normative emergenziali.

Innanzitutto, per agevolare la fase della ripartenza anche del mondo di lavoro, il Decreto introduce misure di sostegno economico del datore di lavoro. Si tratta di due crediti d’imposta per prevenire il contagio e limitare il rischio di diffusione del Covid 19 negli ambienti di lavoro: a) il primo nella misura del 60% per un massimo di 80mila euro, in relazione agli interventi necessari per far rispettare le prescrizioni sanitarie e le misure di contenimento contro la diffusione del Covid-19, è riconosciuto ai soggetti esercenti attività d’impresa, arte o professione in luoghi aperti al pubblico ed è cumulabile con altre agevolazioni per le medesime spese; b) il secondo nella misura del 60% – per un massimo di 60mila euro – è una nuova versione del credito d’imposta per la sanificazione e l’acquisto di mascherine e Dpi, introdotto dal decreto Cura Italia e ampliato dal decreto Liquidità ed è riconosciuto ai soggetti esercenti arti e professioni, agli enti non commerciali, compresi gli enti del Terzo Settore e gli enti religiosi civilmente riconosciuti.

Anche il Decreto Rilancio pone l’accento sulla rilevanza dello smart working che assume la rilevanza di misura di contenimento del contagio. In particolare, il Decreto ne esalta anche la valenza di misura nell’ambito del cosiddetto work life balance, riconoscendone il diritto «fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, ai genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore».

Ne parlano Vittorio De Luca e Antonella Iacobellis per il Sole 24 Ore di sabato 23 maggio, sullo speciale dedicato alle regole sul lavoro del Decreto Rilancio.

Scarica sul sito de Il Sole 24 ore lo speciale per leggere il contributo dello Studio in materia di sicurezza e salute sul lavoro.