La Corte di Cassazione, III Sezione Penale, con la sentenza n. 16302/2022, ha ritenuto una società di logistica responsabile dell’illecito amministrativo derivante dalla commissione del reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 74/2000 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”), commesso dai propri manager nel suo interesse e a suo vantaggio. È la prima volta che viene riconosciuta in capo ad una società la responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/20011 per la commissione di un reato tributario.

Nel caso di specie è stato accertato che la società, attraverso il ricorso ad una somministrazione illecita di manodopera, aveva determinato una concorrenza sleale tra imprese, per la conseguente alterazione delle regole di mercato, comportando lo sfruttamento dei lavoratori e producendo evasioni fiscali e contributive, con particolare riferimento all’evasione IVA.

Come ricostruito dagli inquirenti, la società, attraverso un appalto non genuino, aveva azionato il diritto alla detrazione dell’Iva dopo aver articolato un meccanismo in forza del quale, attraverso il pagamento di fatture per appalti di opere e servizi “fittizi”, “scaricava” l’Iva da un consorzio che, a sua volta, “scaricava” il tributo dalle cooperative consorziate che l’avrebbero dovuto versare allo Stato ed invece, dopo qualche anno, cessavano l’attività, rimanendo in debito verso l’erario. L’erario è risultato così impedito nel recupero dell’imposta, con conseguente accollo dell’evasione fiscale alla collettività.

La Corte di Cassazione, nel richiamare l’orientamento della sezione tributaria, ha anche osservato che “in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che il committente (…) assume di aver pagato al preteso appaltatore per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – non è detraibile ai sensi del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 (…)”.

In altre parole, gli appalti “fittizi” determinano “l’inesistenza soggettiva delle fatture, comportando l’indetraibilità dell’IVA esposta in dichiarazione” ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 74/2000, con conseguente responsabilità dell’ente coinvolto ai sensi dell’art. 25-quinquedecies del D.Lgs. 231/2001.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19846/2020, ha sottolineato la necessità di riconoscere al lavoratore la possibilità di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Diritto questo da intendersi anche come possibilità di maturare – in un momento successivo ad un preliminare deposito di giustificazioni scritte prive di richiesta di audizione orale – un “ripensamento” e, dunque, di propendere per una rappresentazione anche orale degli elementi a propria discolpa.

I fatti di causa

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’irrogazione di una sanzione disciplinare ad un lavoratore che aveva avanzato una richiesta di audizione orale dopo la presentazione delle difese scritte negata dal datore di lavoro.  In particolare, il lavoratore agiva in giudizio al fine di far accertare l’illegittimità della predetta sanzione, lamentando appunto l’omesso svolgimento dell’audizione orale.

Nella fase di merito, la sanzione disciplinare veniva giudicata illegittima in quanto il lavoratore, dopo la presentazione delle difese scritte, aveva “formulato richiesta di audizione orale nel rispetto del termine di cinque giorni di cui all’art. 7 legge n. 300 del 1970” e pertanto “il datore di lavoro, prima di applicare la sanzione disciplinare, avrebbe dovuto dare corso a tale audizione”.

La società datrice di lavoro adiva, pertanto, la Corte di Cassazione sostenendo che la richiesta di audizione orale doveva essere effettuata contestualmente alla presentazione di giustificazioni scritte e che, consequenzialmente, non impegnava la stessa a procedere in tal senso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso della società datrice di lavoro, ha affermato che al lavoratore deve essere riconosciuta “la possibilità di piena esplicazione del diritto di difesa e, quindi, anche la possibilità, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, di maturare “un ripensamento” circa la maggiore adeguatezza difensiva della rappresentazione (anche) orale degli elementi di discolpa”.

Inoltre, secondo la Corte di Cassazione al datore di lavoro è precluso ogni sindacato, anche sotto il profilo della conformità e correttezza a buona fede, della condotta del dipendente con riferimento alla necessità o opportunità della richiesta integrazione difensiva essendo la relativa valutazione rimessa in via esclusiva al dipendente medesimo.

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