La Suprema Corte conferma il licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva utilizzato il congedo parentale per lavorare nello stabilimento balneare della moglie invece di accudire i figli
Il congedo parentale, disciplinato dall’art. 32 del D. Lgs. n. 151/2001, rappresenta uno strumento a tutela della genitorialità, concepito per consentire al genitore lavoratore di dedicare tempo alla cura del figlio nei suoi primi anni di vita, soddisfacendone i bisogni affettivi e relazionali. Tuttavia, tale diritto, pur qualificandosi come potestativo, non è esente da limiti e il suo esercizio è strettamente vincolato alla finalità per cui è stato istituito. Con la recente ordinanza n. 24922, pubblicata il 9 settembre 2025, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla delicata questione dell’abuso di tale istituto, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che aveva utilizzato il congedo per scopi diversi dall’accudimento della prole.

Il caso di specie
La vicenda trae origine dal licenziamento disciplinare intimato da una società ad un proprio dipendente, per aver abusato del congedo parentale.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria, riformando la pronuncia di primo grado, aveva accertato la legittimità del recesso, ritenendo provato che il lavoratore, durante il periodo di astensione dal lavoro (in particolare nei giorni 9, 14, 15 e 16 agosto 2019), si fosse dedicato ad attività lavorativa presso lo stabilimento balneare gestito dalla moglie, trascurando la cura diretta dei figli e, in particolare, del minore di tre anni. Tale condotta, secondo la Corte d’Appello, aveva snaturato la finalità dell’istituto, rendendo persino necessario il ricorso ad un aiuto esterno per sopperire alla sua assenza, in palese contrasto con lo scopo del congedo, volto a favorire il rapporto padre-figlio. Avverso tale decisione, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, offrendo importanti chiarimenti sui confini dell’esercizio del diritto al congedo parentale e sulla sindacabilità delle condotte abusive.
La Cassazione ha, infatti, ribadito che il congedo parentale è un diritto potestativo il cui esercizio, tuttavia, non è arbitrario, ma funzionalmente orientato alla cura diretta del bambino. Lo svolgimento di qualsiasi altra attività che non sia strettamente connessa a tale finalità costituisce un abuso del diritto e una violazione del principio di buona fede contrattuale sia nei confronti del datore di lavoro, che si vede ingiustamente privato della prestazione lavorativa e subisce una lesione dell’affidamento riposto nel dipendente, sia nei confronti dell’ente previdenziale, con l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale dalla sua causa tipica.
La Corte, nel proprio excursus decisorio, ha inoltre richiamato, per analogia, la propria consolidata giurisprudenza in materia di permessi ex lege n. 104/1992 (tra le tante: Cass. n. 12679/2024, n. 6468/2024, n. 25290/2022, n. 1394/2020). In questo senso, la Suprema Corte ha affermato che non rileva il carattere episodico della condotta: è sufficiente lo sviamento dalla finalità legittima per configurare un illecito grave, capace di incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.
Ed infatti, i principi elaborati sono paradigmatici nel delineare i confini dell’abuso del diritto e nel qualificare la condotta del lavoratore che si avvalga di strumenti di tutela previsti dall’ordinamento per fini estranei a quelli per i quali sono stati concessi.
I controlli investigativi e i limiti di legittimità
La verifica di tali abusi passa spesso attraverso controlli mirati, in particolare tramite agenzie investigative. Su questo fronte, la giurisprudenza è chiara: l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori vieta ogni forma di sorveglianza diretta sull’attività lavorativa, ma ammette i controlli difensivi finalizzati ad accertare condotte fraudolente estranee all’adempimento della prestazione.
Così, la Cassazione (da ultimo, Ord. 12 febbraio 2025, n. 3607) ha confermato il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, dopo aver timbrato il badge, si allontanava per svolgere attività personali, accertate tramite investigatore privato. Analogamente, con ordinanza 30 gennaio 2025, n. 2157, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo l’utilizzo di agenzie investigative per verificare abusi dei permessi ex legge n. 104/1992, purché vi siano fondati sospetti e le indagini siano proporzionate e non invasive.
Il controllo investigativo, dunque, è lecito se circoscritto e giustificato: non può mai trasformarsi in sorveglianza generalizzata, ma deve avere come unico obiettivo la verifica di comportamenti che ledono gli interessi aziendali o il patrimonio reputazionale dell’impresa (Cass. n. 30079/2024).
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