La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21172/2021, ha stabilito che la rinuncia da parte dell’amministratore al compenso può trovare espressione in un suo comportamento concludente che riveli in modo univoco la volontà dismissiva del relativo diritto. Tuttavia, l’atto abdicativo deve desumersi non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscono un preciso significato negoziale al contegno tenuto.

I fatti di causa

Nel caso di specie, un dirigente, anche amministratore delegato, nell’impugnare giudizialmente il licenziamento intimatogli, aveva rivendicato anche il proprio diritto a ricevere il compenso per la carica ricoperta durante l’intercorso rapporto.

La Corte d’Appello, per quel che ci interessa, nel rigettare la domanda del dirigente, aveva ritenuto sussistenti alcuni elementi che facevano presumere la gratuità dell’incarico, tra cui (i) la mancata erogazione di un compenso per tutto il periodo di svolgimento dell’incarico, (ii) l’assenza di qualsivoglia richiesta da parte sua nello stesso periodo, nonché (iii) la dichiarazione resa da un teste circa la decisione del Consiglio di Amministrazione, alla presenza dell’interessato, di non prevedere una remunerazione.

Il dirigente proponeva così ricorso in cassazione, eccependo, con riferimento al proprio diritto al compenso per l’incarico di amministratore, di non avervi mai rinunciato.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione adita ha ritenuto fondata la domanda del dirigente; in particolare la stessa ha ribadito la natura del rapporto di amministratore quale rapporto di immedesimazione organica con la società. In secondo luogo, ha affermato la possibilità, per l’amministratore, di rinunciare al compenso, anche non espressamente, purché con un comportamento concludente “che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa.

In merito alla nozione di “comportamento concludente”, la Corte di Cassazione ha richiamato un principio generale secondo il quale “affinché il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell’altra”.

In considerazione di quanto sopra, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno erroneamente considerato significativa l’inerzia delle parti e l’asserita decisione del Consiglio di Amministrazione di non specificare nulla sul compenso di amministratore. Ciò in quanto, la condotta meramente omissiva del dirigente non può assumere il significato di una manifestazione di volontà.

La Corte di Cassazione ha così cassato la sentenza e rinviato le parti alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Altri insight correlati:

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24139/2018, ha chiarito che per escludere l’onerosità della carica di amministratore di una società non è sufficiente la mancanza di rivendicazione dei pagamenti, essendo necessaria una clausola contrattuale o statutaria a prevederne la gratuità.

Il Fatto

La vicenda nasce da una richiesta di pagamento dei compensi avanzata da un amministratore di una società a responsabilità limitata, accolta in primo grado, ma ribaltata in sede di appello.

In particolare, l’amministratore aveva rivendicato compensi per il periodo di incarico dal 2001 al 2006. Il Tribunale di primo grado aveva accolto la domanda, riconoscendo il compenso dovuto. La Corte d’Appello territorialmente competente, adita ad iniziativa della società, aveva accolto le doglianze di quest’ultima, rinvenendo nella mancanza di rivendicazione dei compensi, sia durante l’incarico che alla cessazione dello stesso, una rinuncia ai compensi per fatti concludenti.

La Corte di Cassazione, adita dunque su ricorso dell’amministratore, ha invertito nuovamente l’esito del giudizio, accogliendo i motivi di doglianza sollevati.

La decisione della Cassazione

Secondo la Suprema Corte la carica di amministratore si presume essere a titolo oneroso e ciò in applicazione dell’art. 1709 cod. civ. in base al quale: “Il mandato si presume oneroso. La misura del compenso, se non è stabilita dalle parti, è determinata in base alle tariffe professionali o agli usi; in mancanza è determinata dal giudice”. Con l’accettazione dell’incarico sorge, pertanto, in capo all’amministratore il diritto a percepire un compenso e l’eventuale comportamento omissivo, consistente nella mancata rivendicazione dei compensi, in pendenza dell’incarico e in fase di cessazione, non è di per sé sufficiente ad integrare gli estremi di una rinuncia tacita valida ed efficace ai sensi dell’art.1236 cod. civ. Ciò in quanto non è rilevabile nella fattispecie esaminata una volontà oggettivamente incompatibile con quella di conservare il diritto al compenso. La Corte sottolinea infine che, stante la presunzione di onerosità, la gratuità dell’incarico deve essere espressamente stabilita o in forza di una apposita previsione dello statuto della società oppure in forza di un accordo specifico in tal senso con l’Amministratore.

Conclusioni

L’amministratore di una società ha diritto al compenso per l’attività svolta, che si presume onerosa. Ciò, a prescindere da qualsivoglia comportamento omissivo dell’amministratore stesso. La gratuità dell’incarico può, quindi, derivare solo da una disposizione ad hoc.