La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023, ha ribadito il proprio costante orientamento relativo alla ripartizione dell’onere probatorio nei giudizi antidiscriminatori, precisando che i criteri di riparto non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali che stabiliscono un’agevolazione in favore del ricorrente.

L’onere della prova in tema di discriminazione

Ai sensi dell’art. 25, comma 2-bis del D.Lgs. n. 198/2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità) costituisce discriminazione ogni trattamento che in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti pone il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

  1. posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
  2. limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
  3. limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.

Con riferimento al riparto dell’onere probatorio, il successivo art. 40 stabilisce che quando il ricorrente  fornisce  elementi  di  fatto,  desunti  anche  da  dati  di  carattere  statistico  relativi  alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione  dell’esistenza  di  atti,  patti  o  comportamenti  discriminatori  in  ragione  del  sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

La  Suprema  Corte  ha  interpretato  tale  norma  nel  senso  essa  “non  stabilisce  un’inversione dell’onere  probatorio,  ma  solo  un’attenuazione  del  regime  probatorio  ordinario  in  favore  del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei  a  fondare,  in  termini  precisi  e  concordanti,  anche  se  non  gravi,  la  presunzione dell’esistenza  di  atti,  patti  o  comportamenti  discriminatori  in  ragione  del  sesso”  (Cass.  n. 25543/2018).

Conseguentemente – ha precisato la Suprema Corte – “incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso” (Cass. n. 23338/2018).

Ne consegue, sul piano pratico, che in un procedimento anti discriminatorio, mentre la lavoratrice che  invoca  l’illegittimità  della  condotta  è  tenuta  a  provare  –  anche  per  mezzo  di  elementi presuntivi – che il trattamento che risulta meno favorevole rispetto a quello riservato ai colleghi in condizioni analoghe, il datore di lavoro, per escluderla, dovrà invece dimostrare che la decisione sarebbe stata operata con i medesimi parametri anche nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione (in senso conforme, ex pluris: Cass. n. 1/2020).

Del resto, la necessità di operare dei correttivi ai normali criteri di onere probatorio nei casi di discriminazione  –  che  comportano  indubbie  difficoltà  da  parte  del  lavoratore  ad  offrire  validi elementi di prova a sostegno dei propri assunti – era già stata avvertita anche dalla disciplina comunitaria, tanto da spingersi ad offrire a tutti i singoli Stati membri la libertà di prevedere un regime di ripartizione meno gravoso, disponendo espressamente che “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali  si  possa  presumere  che  ci  sia  stata  discriminazione  diretta  o  indiretta…  La  presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice” (direttiva n. 2006/54/CE).

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La  vicenda  processuale  trae  origine  dal  ricorso  ex  art.  38,  comma  3,  D.Lgs  n.  198/2006, promosso  da  un’apprendista  al  fine  di  ottenere  l’accertamento  e  la  repressione  del comportamento  asseritamente  discriminatorio  tenuto  dal  datore  di  lavoro  in  relazione  alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante. La lavoratrice lamentava, infatti, che, a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato, la mancata assunzione della ricorrente fosse connessa alle due gravidanze dalla stessa portate a termine nel corso del rapporto di apprendistato.

Il giudice di primo grado, in accoglimento del ricorso della lavoratrice avverso il decreto di rigetto emesso  all’esito  della  fase  sommaria,  ordinava  alla  società  di  cessare  il  comportamento discriminatorio  e  di  rimuoverne  gli  effetti,  reintegrando  la  lavoratrice  nel  posto  di  lavoro precedentemente  occupato,  con  la  ricostruzione  della  carriera  sotto  il  profilo  giuridico  ed economico, considerando la disdetta come mai intervenuta.

La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado, statuendo che gli elementi addotti dalla lavoratrice  a  sostegno  del  carattere  discriminatorio  della  condotta  datoriale  fossero  privi  dei caratteri  di  precisione  e  concordanza  necessari  per  poter  fondare  una  presunzione  di discriminazione superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.

Osservava la Corte territoriale che “il recesso è atto in sé neutro, privo di concordanza, ancor più nello specifico in cui la disdetta risultava comunicata circa 17 mesi dopo la seconda maternità; parimenti, la proroga del contratto di formazione per un periodo corrispondente a quello delle assenze per gravidanza, maternità e malattia, costituiva un fattore neutro ispirato al principio, a tutela di entrambe le parti del contratto, di garantire la effettività della formazione“.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore.

In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana abbiamo approfondito diversi temi, tra questi l’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, anche alla luce delle ultime pronunce della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1095 del 16 gennaio 2023, ha stabilito che ai fini della riqualificazione di un rapporto di lavoro autonomo in uno di natura subordinata è possibile fare ricorso ad elementi di carattere sussidiario (come ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione di un compenso fisso a cadenza mensile, l’assenza di un rischio e di una struttura imprenditoriale in capo al lavoratore) laddove non sussista la prova diretta dell’eterodirezione.

I fatti di causa

La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un giudizio intrapreso da un consulente informatico che, in forza di plurimi contratti di lavoro autonomo susseguitesi nel tempo, aveva svolto, per conto del committente, attività di assistente di natura sistemistica presso gli uffici giudiziari di Arezzo.

Il Tribunale di Pisa, in primo grado, aveva rigettato la domanda di riqualificazione confermando la natura autonoma del rapporto in mancanza della prova dell’eterodirezione del prestatore di lavoro.

Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di Appello di Firenze lamentando che il giudice di prime cure non avesse dato rilevanza al complesso degli elementi che, seppur non idonei a dimostrare la eterodirezione, costituivano indizi idonei a integrare la prova della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso.

Nell’ambito del giudizio di secondo grado la Corte territoriale, riformando la decisione del giudice di prime cure, ha accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla base dei seguenti elementi:

  • i contratti di lavoro autonomo (denominati incarichi di consulenza) riportavano in maniera del tutto generica l’oggetto della prestazione del collaboratore. Quindi, nonostante l’espressa qualificazione del rapporto come autonomo, dal tenore testuale dei contratti non erano desumibili elementi contrastanti con la sussistenza di subordinazione, che, anzi, trovava un elemento di conferma nella pattuizione di un compenso commisurato alle giornate lavorative;
  • il lavoratore si avvaleva di strumenti di lavoro forniti dal committente, con conseguente insussistenza di rischio economico del prestatore;
  • il committente esercitava un controllo sull’entità oraria e giornaliera della prestazione lavorativa del collaboratore che assicurava la propria prestazione secondo le esigenze della società;
  • funzioni del tutto analoghe erano affidate, presso altro ufficio giudiziario, a un tecnico dipendente della società.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso confermando che la Corte di Appello, non avendo rinvenuto la prova diretta della c.d. eterodirezione ha correttamente fatto ricorso ad elementi indiziari che, nel caso di specie, costituiscono indizi idonei e significativi della subordinazione.

Pertanto, anche in mancanza di una eterodirezione il giudice di appello aveva reputato dimostrata la subordinazione tenuto conto che (i) vi era un controllo sull’entità orario e giornaliera della prestazione lavorativa; (ii) il compenso era commisurato alle giornate lavorative; (iii) non sussisteva un rischio economico per il lavoratore; (iv) il collaboratore aveva assicurato la disponibilità ad operare nelle fasce orarie richieste (v) l’oggetto generico della collaborazione indicato nel contratto e la mancanza di un obbligazione di risultato.

In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società, condannandola alle spese di lite.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza dello scorso 11 ottobre 2022, n. 29720, ha confermato che “qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore in conformità con l’articolo 2087 c.c.” rientra nella nozione di Dispositivo di Protezione Individuale (D.P.I.).

Una Società – datrice di lavoro – proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari che, confermando la decisione di primo grado, riconosceva il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni per il mancato lavaggio, da parte della Società, degli indumenti da quest’ultimo utilizzati per rendere la prestazione lavorativa. In particolare, secondo i giudici di primo e secondo grado, il gilet ed il giubbotto frangente ad alta visibilità, il giubbotto impermeabile contro le intemperie, il pantalone da lavoro e i guanti di protezione sarebbero stati “tutti da considerare dispositivi di protezione individuale”.

Richiamando numerosi precedenti, i giudici di legittimità riconfermano che, in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute nonché dei principi di correttezza e buona fede quali fondamenta del rapporto di lavoro, quanto previsto dall’articolo 2087 c.c. – ossia l’obbligo del datore di lavoro di predisporre tutte le misure idonee, secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore – deve essere interpretato in maniera estensiva.

Da ciò consegue, come si legge nell’ordinanza, che il datore di lavoro è tenuto sia a fornire i necessari indumenti ai propri lavoratori sia a prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo anche al relativo lavaggio. Tale obbligo, infatti, diviene indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza rientrando, in tal modo, tra le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori ai sensi del citato articolo 2087 c.c.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dalla società condannando la ricorrente al pagamento delle spese.

L’orientamento della Cassazione

La pronuncia in esame – ultima in termini temporali – conferma un ormai consolidato orientamento degli Ermellini che chiariscono come la nozione legale di D.P.I. non debba essere limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi ma deve essere interpretata estensivamente ricomprendendo qualsiasi attrezzatura, accessorio o complemento che protegga, anche limitatamente ovvero in maniera ridotta, il lavoratore dai rischi ai quali è esposto nello svolgimento della prestazione lavorativa (in questo senso, come si legge nell’ordinanza in commento, Cass. n. 16749 del 2019; n. 17132 del 2019; n. 17354 del 2019; Cass. n. 5748 del 2020; Cass. n. 17100 del 2021).

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33134 del 10 novembre 2022, ha statuito che non si ha assenza ingiustificata se il lavoratore consegna il certificato medico di malattia dopo aver ricevuto la contestazione disciplinare.

I fatti di causa

A seguito di un’assenza non giustificata protrattasi per sette giorni, un dipendente veniva licenziato per giusta causa. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Firenze accertavano l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto addebitato e ciò in quanto, dall’analisi dei fatti di causa, emergeva che, alla data della comunicazione del recesso, la certificazione medica – che copriva retroattivamente l’intero periodo di assenza oggetto di contestazione disciplinare – era stata trasmessa al datore di lavoro.  I giudici di merito osservavano che la contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro disciplinava, con due distinte disposizioni, l’assenza ingiustificata e la tardiva o irregolare giustificazione, sanzionando la prima con il licenziamento e la seconda con la sanzione conservativa della multa. A fronte di tale disciplina contrattuale, il licenziamento per giusta causa irrogato dal datore di lavoro era pertanto da considerarsi illegittimo, con conseguente condanna del datore alla reintegrazione in servizio del dipendente e al risarcimento del danno commisurato alle mensilità non lavorate, oltre al versamento dei contributi.

Avverso la decisione della Corte d’Appello, la società datrice di lavoro proponeva ricorso in cassazione.

La sentenza della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dalla società, confermava l‘illegittimità del licenziamento intimato al dipendente. Partendo dall’analisi delle norme disciplinari contenute nel CCNL Tessile e Abbigliamento applicato al rapporto di lavoro, la Corte ha evidenziato che, dal tenore letterale delle stesse, risultava che le parti sociali avessero voluto punire con il licenziamento esclusivamente un’assenza effettivamente ingiustificata e non anche la diversa ipotesi in cui l’assenza fosse tardivamente giustificata.

Ne consegue che la consegna del certificato medico dopo l’avvio dell’azione disciplinare impedisce che si produca la fattispecie inadempiente dell’assenza ingiustificata e riconduce l’episodio alla più lieve ipotesi della giustificazione tardiva dell’assenza, con conseguente illegittimità della sanzione espulsiva.

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