Il 20 febbraio 2025 è stato approvato definitivamente dalla Camera il Decreto-legge n. 6/2025, noto come Decreto Milleproroghe, che interviene ancora una volta sui contratti a tempo determinato, in particolare sulle causali che giustificano tali rapporti di lavoro temporanei.
Il Decreto estende fino al 31 dicembre 2025 la possibilità per i datori di lavoro privati di stipulare contratti a termine superiori a 12 mesi, e in ogni caso non superiore a 24 mesi, anche per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, se non già previste dai contratti collettivi.
Tale disposizione si applica a tutti i settori, con una prima applicazione che potrebbe interessare il settore turistico, in attesa di aggiornamenti dei contratti collettivi di riferimento.
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Il decreto Correttivo sugli appalti (Dlgs 209/2024) entrato in vigore il 31 dicembre 2024 è intervenuto al fine di garantire una maggior tutela dei lavoratori impiegati nell’ambito delle esternalizzazioni, nonché una maggiore trasparenza rispetto ai relativi trattamenti economici e normativi.
Il Correttivo ha integrato e modificato il decreto legislativo 36/23 (Codice dei contratti pubblici), prevedendo, tra le altre cose, l’obbligo per le stazioni appaltanti di specificare, in tutte le fasi delle gare indette, il contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile al personale impiegato nell’ambito dell’appalto. Parimenti, è stato previsto che in caso di appalto che includa prestazioni scorporabili, secondarie, accessorie o sussidiarie, qualora le relative attività siano differenti da quelle prevalenti oggetto dell’appalto o della concessione e si riferiscano, per una soglia pari o superiore al 30%, alla medesima categoria omogenea di attività, la stazione appaltante dovrà indicare, nei documenti di gara, «il contratto collettivo nazionale e territoriale di lavoro in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicabile al personale impiegato in tali prestazioni».
Non meno importanti, poi, la modifica dell’articolo 11, comma 4, del Codice, nella misura in cui precisa che la verifica della dichiarazione di equivalenza delle tutele relative al personale impiegato nell’appalto, presentata dall’operatore economico, deve essere effettuata seguendo le modalità previste dall’articolo 110 del Codice e in linea con le nuove disposizioni dell’Allegato I.01; o, ancora, quella di cui all’articolo 119, comma 12, per cui in caso di subappalto «il subappaltatore … è tenuto ad applicare il medesimo contratto collettivo di lavoro del contraente principale, ovvero un differente contratto collettivo, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele economiche e normative di quello applicato dall’appaltatore, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto oppure riguardino le prestazioni relative alla categoria prevalente».
In pratica, in base all’Allegato I.01, si presumono equivalenti i contratti stipulati dalle stesse organizzazioni sindacali (comparativamente più rappresentative) anche se firmati con organizzazioni datoriali diverse da quelle firmatarie del contratto collettivo di lavoro indicato dalla stazione appaltante. Ma tale presunzione di equivalenza opera nella misura in cui il Ccnl sia attinente al medesimo sottosettore nonché «corrispondente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa».
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La legge 104/1992 prevede il riconoscimento di permessi retribuiti per assistere familiari con disabilità. Tale norma consente di accedere a un beneficio significativo, il cui costo economico è a carico dell’Inps. Tuttavia, l’esercizio di tale diritto ha evidenziato, nel tempo, dei fenomeni di utilizzo improprio dei permessi da parte degli interessati, con conseguente coinvolgimento della magistratura per la verifica dell’eventuale mancato rispetto delle prerogative indicate nella legge 104/1992, da parte dei dipendenti beneficiari. L’esame delle recenti decisioni giurisprudenziali in materia risulta utile per delineare i confini al di là dei quali si è in presenza di abuso da parte dei lavoratori.
Inutile dire che la questione è complessa, in quanto la legge si limita a stabilire il diritto di fruire dei permessi per ragioni assistenziali e, conseguentemente, la norma non aiuta a definire a quali condizioni si è in presenza o meno di esercizio abusivo da parte degli interessati.
Al riguardo, la giurisprudenza, in prevalenza, ha privilegiato una lettura non particolarmente restrittiva della norma in esame nei confronti dipendenti interessati, stabilendo che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il familiare disabile non sia in condizioni di compiere autonomamente.
In tal senso, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26417/2024, ha stabilito che l’assistenza al familiare disabile non richiede una presenza continua e ininterrotta presso il domicilio di quest’ultimo, ma può comprendere una gamma di attività collaterali (quali piccole commissioni per effettuare la spesa, recarsi in posta, in farmacia o da medici), purché potenzialmente finalizzate al benessere e alla cura del familiare da assistere. Secondo quanto statuito dalla sentenza, inoltre, non integra l’ipotesi di abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile e non su base oraria.
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Con l’ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di licenziamento per motivo economico di una dirigente con disabilità, statuendo che la natura discriminatoria del licenziamento non è esclusa dalla concorrenza di un’altra motivazione sussistente, quale la soppressione della posizione per riorganizzazione aziendale.
Una dirigente, licenziata per riorganizzazione aziendale e soppressione del posto di lavoro, impugnava il licenziamento intimatole, eccependo la natura discriminatoria del recesso per ragioni di salute e disabilità.
Nel primo grado di giudizio e nell’ambito del giudizio di appello, i giudici hanno accertato l’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta a base dell’intimato licenziamento, rigettando il ricorso promosso dalla dirigente.
In particolare, quanto al dedotto licenziamento discriminatorio per ragioni di salute e disabilità, la Corte d’Appello aveva riconosciuto come infondate le censure sollevate dalla lavoratrice appellante.
Avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Dirigente proponeva ricorso per cassazione.
La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso della dipendente, ha statuito che la Corte di Appello ha erroneamente affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell’esistenza dell’elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio, ponendosi dunque in contrasto “con la giurisprudenza consolidata dalla quale risulta invece che il licenziamento possa essere, direttamente o indirettamente, discriminatorio anche quando concorra una ragione legittima, come il motivo economico”.
Con riferimento poi all’onere della prova, gli Ermellini hanno rilevato altresì la violazione da parte della Corte d’Appello del criterio di alleggerimento della prova stabilito dall’ordinamento, avendo spostato tutto l’onere di allegazione e prova a carico della lavoratrice, ritenendo che non avesse allegato gli elementi atti a dimostrare la discriminazione.
Sul punto, la Suprema Corte ha infatti precisato che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.
Per le ragioni di cui sopra, la Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso promosso dalla dipendente, ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, «che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione di quanto specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità».
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Con la sentenza n. 148, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 31 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice Civile, nella parte in cui non annovera il “convivente di fatto” tra i partecipanti all’impresa familiare.
La pronuncia trae origine dalla pretesa azionata dalla convivente di un titolare di un’azienda agricola, poi deceduto, di ottenere dagli eredi di quest’ultimo la liquidazione della propria quota di partecipazione all’impresa familiare, in cui sosteneva di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo per circa otto anni.
Dopo il rigetto della domanda nei primi due gradi di giudizio, la questione è stata sottoposta alla Consulta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Le Sezioni Unite, in particolare, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c. in materia di impresa familiare, con riferimento agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non includeva il convivente more uxorio nel novero dei “familiari”.
La Corte costituzionale ha accolto la questione rilevando che, in una società notevolmente mutata, in seguito ai recenti sviluppi normativi e approdi giurisprudenziali, costituzionali, comuni ed europei, è stata riconosciuta piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
La Corte ha evidenziato che pur rimanendo ancora alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti, senza distinzioni di sorta.
Tra questi diritti fondamentali rientrano, senza dubbio, il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, anche nel contesto di un’impresa familiare, ove la posizione del convivente di fatto necessita della medesima protezione del coniuge, dal momento che entrambi versano nella stessa situazione in cui “l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.
Sulla base di tali premesse la Corte ha quindi dichiarato l’incostituzionalità della norma attesa la mancata inclusione del convivente di fatto nel novero dei partecipanti all’impresa familiare.
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