Con la recentissima ordinanza n. 9282 dell’8 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha statuito che per i lavoratori assunti in prova, la normativa sui licenziamenti individuali (legge 604/1966, modificata nel 2010), è applicabile soltanto nel caso in cui l’assunzione diventi definitiva e comunque quando siano decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.
Una società decideva di recedere dal contratto di lavoro durante il periodo di prova per mancato superamento della stessa da parte del lavoratore.
Il recesso in prova veniva impugnato dal dipendente nel rispetto del termine di impugnazione stragiudiziale con richiesta del tentativo di conciliazione (non accettato dal datore di lavoro), ma senza rispettare il termine per il deposito del ricorso giudiziale.
La Corte d’Appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava che il deposito del ricorso da parte del dipendente era avvenuto oltre il termine di decadenza previsto dall’articolo 6 della legge 604/1966. Secondo tale norma, infatti, l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita, entro sessanta giorni dal fallimento del tentativo di conciliazione, dal deposito del ricorso giudiziale.
Il lavoratore ha impugnato la decisione della Corte d’Appello davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo che la legge 604/1966 non fosse applicabile nel suo caso, poiché, secondo l’articolo 10 della stessa legge (modificato dalla legge 183/2010), le norme sui licenziamenti si applicano solo dal momento in cui l’assunzione diventa definitiva o comunque dopo sei mesi dall’inizio del rapporto.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9282/2025, ha accolto il ricorso del lavoratore, affermando che i giudici di merito hanno erroneamente applicato la normativa sui licenziamenti individuali (art. 6 della legge 604/1966), senza considerare la peculiarità del rapporto di lavoro in prova.
La Corte ha precisato che il recesso durante il periodo di prova non rientra tra i casi di licenziamento soggetti al regime decadenziale previsto dall’articolo 6 della legge 604/1966 e dall’articolo 32 della legge 183/2010.
Ciò in quanto il patto di prova ha una natura differente, finalizzata a consentire a entrambe le parti di valutare la reciproca convenienza del rapporto, e per questo è regolato da una logica di maggiore flessibilità.
In questi casi, conclude la Corte, si applica la prescrizione ordinaria di cinque anni, non i termini decadenziali previsti per i licenziamenti ordinari.
Per queste ragioni, la Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d’Appello, disponendo il rinvio della causa alla Corte di merito per una nuova valutazione, tenendo conto della specificità del recesso avvenuto durante il periodo di prova.
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La corretta gestione dei controlli datoriali che possono essere attuati da un datore di lavoro è un tema da sempre sensibile per le aziende oggi reso ancor più rilevante dalla diffusione di tecnologie e strumenti sempre più evoluti. Recenti pronunce della Corte di Cassazione hanno ribadito alcuni principi fondamentali sulla legittimità delle verifiche datoriali, sia tramite agenzie investigative sia attraverso l’accesso agli strumenti informatici utilizzati dai lavoratori. È quindi essenziale per i datori di lavoro capire come bilanciare la tutela degli interessi aziendali con il rispetto della privacy dei dipendenti.
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Sez. Lav., 12 febbraio 2025, n. 3607) ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che, dopo aver timbrato il badge, si allontanava dal posto di lavoro con un mezzo aziendale per recarsi a effettuare attività personali e, quindi, non connesse in alcun modo all’esecuzione delle sue mansioni. L’elemento chiave del caso di specie è stato individuato nell’esito del controllo effettuato dall’azienda tramite il supporto di un investigatore privato che, sebbene avesse monitorato gli spostamenti del lavoratore seguendolo in luoghi pubblici, non aveva violato la sua privacy, perché, si legge nella pronuncia, l’attività di controllo si era concentrata non sull’eventuale inadempimento della prestazione lavorativa, bensì sulla verifica della condotta fraudolenta del lavoratore.
Le aziende ricorrono spesso alle agenzie investigative per accertare condotte potenzialmente illegittime da parte dei lavoratori, come l’assenteismo ingiustificato o l’uso improprio dei permessi. Tuttavia, le modalità di effettuazione di tali controlli sono regolate da limiti precisi, normativi e non. Come a più riprese affermato dalla giurisprudenza, i controlli sono legittimi solo se finalizzati a verificare condotte del lavoratore che potrebbero integrare attività fraudolente e quindi potenzialmente dannose per il datore stesso. Infatti, tali controlli non possono in alcun modo interferire o riguardare l’attività lavorativa in sé.
Un esempio tipico riguarda i controlli sulla corretta fruizione dei permessi previsti dalla Legge 104/1992, eventualmente riconosciuti ai lavoratori per finalità di assistenza ai familiari con disabilità. In caso di fondati sospetti di abuso, l’azienda può legittimamente incaricare un’agenzia investigativa per farsi supportare nell’accertamento dell’eventuale condotta illecita ma le indagini dovranno essere mirate, proporzionate e limitate a verificare l’accertamento dell’abuso sospettato. È quindi fondamentale farne un utilizzo oculato e giustificato evitando ogni forma di sorveglianza invasiva o indiscriminata.
Nell’ambito dei controlli difensivi, il datore di lavoro potrebbe avere l’esigenza di accedere ai dispositivi aziendali e agli strumenti di lavoro forniti in dotazione ai dipendenti quali, a titolo esemplificativo, laptop, telefoni e caselle e-mail. Sul tema, vale la pena menzionare l’ultima pronuncia, in ordine temporale, della Corte di Cassazione che si è espressa sulla legittimità dei controlli datoriali effettuati, nello specifico, tramite accesso alla casella di posta elettronica.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 807 del 13 gennaio 2025, ha ribadito che il datore di lavoro può accedere alle e-mail aziendali di un dipendente solo in presenza di un fondato sospetto di illecito. Il controllo deve quindi essere giustificato da un presupposto concreto di illecito e non può essere condotto in modo arbitrario o retroattivo.
La questione impone un’importante riflessione sul tema dei controlli datoriali in un contesto in cui le nuove tecnologie hanno notevolmente ampliato le possibilità di monitoraggio. È dunque essenziale definire con chiarezza quali siano i confini da considerare affinché le azioni intraprese e i dati eventualmente raccolti possano essere considerati legittimi e conformi al quadro normativo oggi vigente. Qualora tali limiti non siano rispettati, la conseguenza è che informazioni che possano confermare la commissione di illeciti siano inutilizzabili.
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Il superamento del periodo di comporto per malattia rappresenta un delicato punto di equilibrio tra i diritti del lavoratore e le esigenze aziendali. La giurisprudenza ha offerto negli anni indicazioni importanti. Quali verifiche deve fare il datore di lavoro e quali sono i doveri del dipendente?
Il tema del superamento del periodo di comporto per malattia rappresenta un aspetto di grande rilievo nella gestione delle risorse umane. Da un lato, infatti, c’è la tutela del lavoratore che, in caso di patologie gravi o prolungate, necessita di un adeguato periodo di assenza per curarsi senza perdere il posto di lavoro. Dall’altro, le imprese devono garantire la continuità operativa e possono trovarsi in difficoltà nel gestire assenze prolungate.
La gestione del superamento del periodo di comporto per malattia richiede quindi un approccio equilibrato e attento: il datore di lavoro deve verificare il rispetto delle norme contrattuali e agire nel rispetto del principio di buona fede, evitando provvedimenti affrettati o discriminatori.
Il lavoratore, dal canto suo, ha il dovere di comunicare in modo corretto la propria condizione e rispettare le regole previste dal contratto e dalla legge. La giurisprudenza ha fornito nel tempo indicazioni fondamentali per contemperare questi interessi, ma solo un’attenta valutazione del singolo caso può garantire il giusto bilanciamento tra la tutela del dipendente e le esigenze aziendali.
Il periodo di comporto è regolato principalmente dall’articolo 2110 del Codice Civile, che stabilisce che in caso di malattia il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo determinato dai contratti collettivi. Superato questo limite, il datore di lavoro può recedere dal rapporto, salvo il diritto all’indennità di preavviso.
Inoltre, la Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) all’art. 18 entra nel merito della cessazione del rapporto di lavoro: la norma tutela il lavoratore da licenziamenti intimati in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del Codice Civile, prevedendo il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Nel corso degli anni, diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno fatto notizia in merito al superamento del periodo di comporto e hanno chiarito che il datore di lavoro deve considerare la specifica situazione del dipendente e valutare eventuali alternative prima di procedere con il licenziamento.
Oltre al caso, salito agli onori della cronaca, di un dipendente licenziato quando mancavano ancora alcuni giorni alla conclusione del periodo di comporto (Cassazione n. 24766/2017), ecco qualche sentenza che ha fatto “storia”
Per evitare contenziosi, il datore di lavoro deve effettuare attente verifiche prima di adottare provvedimenti disciplinari. In particolare deve:
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La référence au « siège du syndicat » dans l’article 411 du code de procédure civile italien ne peut pas permettre que le siège de l’entreprise soit compté parmi les sièges protégés, même si un représentant syndical est présent lors de la conciliation.
À travers l’ordonnance n° 10065 du 15 avril 2024, la Cour de cassation italienne a affirmé que la conciliation au stade syndical, conformément à l’article 411, alinéa 3 du code de procédure civile italien ne peut être valablement conclu au siège de l’entreprise, puisque celui-ci ne peut être compté parmi les sièges protégés, présentant le caractère de neutralité indispensable pour garantir, avec l’assistance fournie par le représentant syndical, la libre détermination de la volonté du travailleur.
L’instrument de la conciliation extrajudiciaire, en tant qu’alternative à la décision du Juge, pour le règlement des contentieux du travail a toujours été considéré favorablement par le législateur, qui a élaboré et réglementé au fil du temps une série d’instruments utiles à cette fin : tentative de conciliation auprès de l’Inspection territoriale du travail italienne (Ispettorato territoriale del Lavoro / ITL) (facultative et obligatoire uniquement dans les cas de contrats certifiés) conformément à l’article 410 du code de procédure civile italien ; conciliation dans le cadre du licenciement d’un employé ayant conclu un contrat de travail à protection croissante (Décret législatif italien n° 23/2015) ; tentative de conciliation au siège du syndicat (article 411 du Code de procédure civile italien) ; tentative de conciliation au siège du tribunal (article 185 du Code de procédure civile italien et article 420 du Code de procédure civile italien) ; conciliation auprès des sièges universitaires ; conciliation monocratique (article 11 du Décret législatif italien n°. 124/2004) ; conclusion au siège du tribunal arbitral conformément à l’article 412 ter et 412 quater.
Plus récemment, avec la réforme « Cartabia » (Décret législatif italien n° 149/2022), le législateur a également étendu l’institution de la négociation assistée aux contentieux du travail en introduisant le nouvel article 2ter au Décret-loi italien n° 132/2014 (converti en loi n° 162/2014), dans le but de tenter un règlement du litige par les avocats des parties qui initient une telle procédure, sans la présence d’un tiers conciliateur, avant d’intenter l’action judiciaire.
Sous le prisme du droit du travail, l’article 2113 du code civil italien prévoit, en termes généraux, l’invalidité des renonciations et des règlements à l’amiable concernant les droits du salarié découlant de dispositions d’ordre public de la loi ou de conventions collectives, en garantissant au salarié la possibilité de contester le règlement à l’amiable, par tout acte écrit, dans un délai de six mois à compter de la cessation de la relation ou de la date successive au règlement à l’amiable.
En effet, le système juridique considère que, contrairement aux relations de négociation de droit civil (égalité formelle entre les parties), dans le cadre des relations de travail, il existe une inégalité substantielle entre l’employeur et l’employé (en termes économiques) qui nécessite un rééquilibrage par le biais d’une protection déclarée de l’employé, afin d’éviter que l’accord ne finisse par nuire à l’employé au lieu de garantir et de protéger ses droits.
Sans préjudice de ce qui précède, l’article 2113 du Code civil italien, comme chacun sait, prévoit également que les renonciations et les règlements à l’amiable sont valables (et ne peuvent donc plus être contestées) s’ils sont conclus auprès des sièges exhaustivement identifiés par le législateur, c’est-à-dire
Dans ce cas, la position du travailleur est protégée par l’intervention d’un tiers, qui veille à ce que la volonté du travailleur ne soit pas influencée.
En ce qui concerne plus particulièrement les accords de conciliation au siège du syndicat, la jurisprudence récente constitue un véritable rappel à l’ordre pour l’employeur qui considère ces accords comme totalement incontestables parce qu’ils ont été signés dans un cadre protégé.
De fait, un nombre croissant de décisions (non seulement sur le fond, mais aussi celles émanant des juridictions supérieures) ont sanctionné l’invalidité des accords de règlement au siège du syndicat s’ils ne présentent pas certaines caractéristiques.
Tout d’abord, le règlement au siège du syndicat, pour être valable, doit comporter l’assistance effective du conciliateur, auquel le travailleur a conféré un mandat spécifique.
L’efficacité de cette activité découle du rôle attribué au conciliateur : ce dernier, compte tenu également du fait que l’accord ne peut être contesté, doit informer préalablement le travailleur de la portée réelle des droits acquis et cédés ou dont il dispose différemment par rapport à ce qui est prévu par la loi ou par la convention collective, ainsi que des conséquences de la signature de l’accord au siège du syndicat (voir, parmi de nombreuses autres décisions, l’ordonnance de la Cour de cassation italienne n° 16154 du 9 juin 2021).
Poursuivant l’examen des décisions qui ont déclaré qu’un procès-verbal consignant un accord syndical peut être contesté, il est renvoyé à l’arrêt rendu par le Tribunal de Bari le 6 avril 2022, dans lequel il a été affirmé que si l’assistance au salarié, dans le cadre d’un règlement à l’amiable au stade syndical, a été fournie par le représentant d’un syndicat auquel le salarié n’appartenait pas, alors l’accord n’est pas valide et efficace.
Il convient également de rappeler que le Tribunal de Rome (arrêt du 8 mai 2019) est allé jusqu’à considérer que le caractère incontestable de la conciliation syndicale (prévu à l’alinéa 4 de l’article 2113 du Code civil italien), doit obligatoirement découler de sa prévision expresse dans la convention collective appliquée par l’employeur, qui régit le siège et les modalités conformément à l’article 412 ter du Code de procédure civile italien.
Il convient également d’ajouter que la jurisprudence émanant des juridictions supérieures a, par ailleurs, estimé nécessaire la présence d’un mandat syndical spécifique qui ne saurait être conféré dans l’imminence de la conciliation et même d’une assistance fournie par le syndicat auquel appartient le salarié et non par d’autres (Cour de Cassation italienne n°16168/2004).
Ces derniers mois, la jurisprudence s’est également penchée sur la question du « lieu » où une conciliation syndicale doit être signée pour être considérée comme incontestable.
A ce sujet – qui fait également l’objet de l’ordonnance commentée – deux jurisprudences récentes sont rappelées.
Avec l’ordonnance n° 25796 du 5 septembre 2023, la Cour de cassation italienne – confirmant l’arrêt rendu en appel – a estimé que l’accord de conciliation conclu au siège de la Préfecture avec l’intervention d’un représentant syndical des travailleurs ne rentrait pas dans le cadre des conciliations qui ne peuvent être contestées en vertu de l’article 2113, dernier alinéa, du code civil italien, et ceci parce que cet accord ne pouvait être considéré comme ayant été conclu au siège d’un syndicat et dans le respect des conditions de la convention collective de la catégorie en vertu de l’article 412-ter du Code de procédure civile italien.
Il y a quelques mois, la Cour de cassation italienne, avec l’ordonnance n° 1975 du 18 janvier 2024, a déclaré que la nécessité que la conciliation syndicale soit signée au siège du syndicat n’est pas une exigence formelle, mais plutôt une exigence fonctionnelle pour s’assurer que le salarié soit conscient de l’acte de disposition qu’il est sur le point d’accomplir et, par conséquent, pour s’assurer que la conciliation corresponde à sa volonté réelle. Par conséquent, si cette prise de conscience est en tout état de cause acquise, par exemple grâce aux explications exhaustives fournies par le conciliateur syndical également mandaté par le travailleur, l’objectif visé par le législateur et les parties collectives doit être considéré comme atteint. Dans ce cas, la conclusion du procès-verbal de conciliation auprès d’un siège autre que celui du syndicat n’a donc pas d’effet invalidant sur l’accord.
L’affaire relative à l’ordonnance commentée a pour origine la signature d’un procès-verbal de conciliation au siège de l’entreprise, en présence des parties et du représentant syndical.
Dans le cadre de cet accord, la société « s’était engagée à ne pas procéder aux licenciements collectifs préannoncés visés dans la lettre d’ouverture de la procédure de mobilité à condition que tous les travailleurs acceptent la proposition de réduire leur salaire mensuel de 20 % du montant imposable pour la période allant du 1/3/2016 au 28/2/2018, prolongeable pour un maximum de deux années supplémentaires ».
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À travers l’ordonnance 10734 du 22 avril 2024, la Cour de cassation italienne a jugé qu’en cas d’issue négative de la tentative de conciliation – prescrite par l’article 7 de la Loi italienne n° 604/1966 en cas de licenciement pour des raisons objectives justifiées de travailleurs embauchés avant mars 2015 – l’employeur n’est pas tenu d’envoyer au salarié une lettre de licenciement, l’indication de l’intention de mettre fin à la relation contenue dans le rapport établi auprès de l’Inspection territoriale du travail italienne (Ispettorato Territoriale del Lavoro) étant suffisante.
À l’issue de la tentative de conciliation menée devant l’ITL conformément à l’article 7 de la Loi italienne n° 604/1966, un procès-verbal de non-conciliation a été établi, dans lequel l’intention de l’employeur de licencier le travailleur pour des raisons objectives a été formalisée.
Par la suite, la salariée a contesté son licenciement en justice, arguant tout d’abord de son inefficacité en raison de l’absence de forme écrite.
Dans le cadre de la phase en référé de l’initiative du « Rito Fornero » (procédure accélérée pour les litiges en matière de licenciement) ainsi que dans la phase d’opposition qui a suivi, le juge a constaté l’absence de forme écrite du licenciement et a par conséquent ordonné à l’employeur de réintégrer la salariée.
La Cour d’appel italienne – saisie par l’employeur – a réformé le jugement rendu au stade de l’opposition.
La Cour territoriale a estimé, d’une part, que la forme écrite de la résiliation était prouvée – et ce parce que l’intention de mettre fin à la relation de travail était contenue dans le procès-verbal signé par les deux parties à l’issue de la procédure prévue par l’article 7 de la Loi italienne n° 604/1966 – et, d’autre part, considérant que le principe d’équité et de bonne foi avait été violé en ce qui concerne le choix de la salariée à licencier, a déclaré le licenciement illégal et a condamné l’employeur aux frais qui en découlent en vertu de l’art. 18, alinéa 7, du Code du travail italien (Statuto dei Lavoratori).
La salariée a fait appel de l’arrêt devant la Cour de cassation italienne et la société, en s’opposant par le dépôt d’un mémoire en défense, a formé à son tour un recours incident.
La Cour de cassation italienne – en confirmant l’arrêt sur le fond – a tout d’abord rappelé que la finalité de l’exigence d’une forme écrite pour le licenciement réside dans la nécessité de faire connaître au salarié l’acte qui interrompt la relation.
Cette fonction – poursuit la Cour – est remplie si l’intention de procéder au licenciement a été formalisée par l’employeur, auprès d’un siège institutionnel (ce qui est certainement le cas de l’Inspection du travail italienne où une conciliation a été tentée en vertu de l’article 7 de la Loi italienne n° 604/1966), dans un procès-verbal signé également par l’employé.
La disposition normative de la troisième phrase de l’alinéa 6 de l’article 7 de la loi italienne n° 604/1966 (« Si la tentative de conciliation échoue et, en tout état de cause, si le délai visé à l’alinéa 3 est écoulé, l’employeur peut communiquer le licenciement au travailleur ») établit une condition légale (suspensive) et un délai (de prorogation). Par conséquent, une fois que la première est remplie ou que le délai est écoulé, l’employeur « peut communiquer le licenciement au travailleur ».
En ce qui concerne le sens à attribuer à la condition juridique suspensive (à savoir à l’échec de la tentative de conciliation), pour la Cour de cassation italienne « les données littérales elles-mêmes » suggèrent que le législateur « a attribué de l’importance au fait objectif de l’échec de la tentative de conciliation plutôt qu’au fait chronologique et formel de la clôture du procès-verbal établi au stade de la commission provinciale de conciliation ».
En outre, poursuit la Cour, « le libellé de la disposition n’exige pas que la notification du licenciement, qui est permise à l’employeur « en cas d’échec de la tentative de conciliation », intervienne dans un contexte différent et postérieur à celui du procès-verbal précité ».
En ce sens, affirme le Collège, « aucune nécessité de protéger les intérêts du travailleur ne pourrait plausiblement justifier l’hypothèse selon laquelle la communication du licenciement au travailleur doit nécessairement avoir lieu dans un contexte distinct du procès-verbal établi lors de la réunion devant la commission spéciale, à condition, bien entendu, que pour la communication du licenciement déjà exprimée lors de cette réunion, les autres exigences en matière de licenciement soient respectées, à commencer par celle de la forme écrite en vertu de l’article 2, alinéa 1, de la Loi [italienne] n° 604/1966 ».
Selon les juges de la Cour de cassation italienne, il s’ensuit que lorsque la tentative de conciliation prévue à l’article 7 de la Loi italienne n° 604/1966 échoue et que l’employeur confirme sa volonté de mettre fin à la relation, il n’est pas nécessaire d’envoyer ensuite à l’employé une lettre de licenciement.
Pour ces raisons, la Cour de cassation italienne a donc rejeté le recours de la salariée, confirmant que seule une protection indemnitaire était due.
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