La conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Ad affermare tale principio è stata la Corte di Cassazione con ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, con ciò fornendo un’interpretazione più restrittiva di quella in precedenza fornita con l’ordinanza n. 1975 del 18 gennaio 2024. Secondo la Corte, infatti, i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di garantire al lavoratore un ambiente neutro, estraneo all’influenza della controparte datoriale.
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Il riferimento alla “sede sindacale” di cui all’art. 411 c.p.c. non può consentire di annoverare la sede aziendale fra le sedi protette, anche se alla conciliazione è presente un rappresentante sindacale
Con l’ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Lo strumento della conciliazione stragiudiziale, in alternativa alla pronuncia del Giudice, per la definizione delle controversie in materia di lavoro è sempre stato visto con favore dal legislatore, che ha approntato e regolamentato nel tempo una serie di strumenti utili a tal fine: il tentativo di conciliazione presso l’ITL (facoltativo e obbligatorio solo nei casi di contratti certificati) ex art. 410 c.p.c.; la conciliazione nell’ambito del licenziamento tutele crescenti (D.Lgs. n. 23/2015); il tentativo di conciliazione in sede sindacale (art. 411 c.p.c.); il tentativo di conciliazione in sede giudiziale (ex art. 185 c.p.c. e art. 420 c.p.c.); la conciliazione presso le sedi universitarie; la conciliazione monocratica (art. 11, D.Lgs. n. 124/2004); la conciliazione in sede arbitrale ex artt. 412 ter e 412 quater.
Da ultimo, con la Riforma Cartabia (D.Lgs. n. 149/2022), il legislatore ha esteso alle controversie di lavoro anche l’istituto della negoziazione assistita, mediante l’introduzione del nuovo art. 2-ter al D.L. n. 132/2014 (conv. in legge n. 162/2014), con lo scopo di tentare una soluzione alla controversia ad opera dei difensori delle parti che avviano tale procedimento, senza la presenza di un soggetto terzo conciliatore, prima di promuovere l’azione giudiziaria.
Da un punto di vista giuslavoristico, l’art. 2113 c.c. prevede, in termini generali, l’invalidità delle rinunzie e transazioni che abbiano ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dei CCNL, garantendo al lavoratore la possibilità di impugnare la transazione, con qualsiasi atto scritto, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla successiva data della transazione.
L’ordinamento ritiene infatti che, a differenza di quanto accade nei rapporti negoziali civilistici (uguaglianza formale tra le parti), nei rapporti di lavoro vi sia una diseguaglianza sostanziale tra datore di lavoro e lavoratore (sotto il profilo economico) che impone il riequilibrio attraverso una tutela dichiarata nei confronti del lavoratore, per evitare che l’accordo finisca per procurare un danno al lavoratore anziché garantire e tutelare i suoi diritti.
Fermo quanto sopra, l’art. 2113 c.c., come noto, dispone altresì che le rinunce e le transazioni sono valide (e, dunque, non più impugnabili) se stipulate nelle sedi tassativamente individuate dal legislatore, ovverosia:
In tali casi, la posizione del lavoratore è tutelata dall’intervento di un soggetto terzo, che garantisce l’assenza di un condizionamento della volontà del medesimo lavoratore.
Con particolare riferimento agli accordi di conciliazione in sede sindacale, la recente casistica giurisprudenziale costituisce un vero e proprio campanello di allarme per il datore di lavoro, che ritiene tali accordi totalmente inoppugnabili in quanto firmati in sede protetta.
Sono sempre più numerose, infatti, le pronunce (non solo di merito, ma anche di legittimità) che hanno sancito l’invalidità degli accordi transattivi in sede sindacale, se privi di determinate caratteristiche.
Innanzitutto, la transazione in sede sindacale, per essere valida, deve comportare l’effettiva attività di assistenza da parte del conciliatore, al quale il lavoratore abbia conferito specifico mandato.
L’effettività di tale attività deriva dal ruolo attribuito al conciliatore: quest’ultimo, anche in considerazione della non impugnabilità della transazione, deve preventivamente informare il lavoratore in merito alla reale portata dei diritti maturati e dismessi o disposti diversamente rispetto a quanto previsto dalla legge o dal contratto collettivo, nonché in relazione alle conseguenze derivanti dalla sottoscrizione della transazione in sede sindacale (ex pluris: Cass. ordinanza n. 16154 del 9 giugno 2021).
Proseguendo nella rassegna delle pronunce che hanno dichiarato impugnabile un verbale di conciliazione in sede sindacale, si richiama la sentenza resa dal Tribunale di Bari il 6 aprile 2022, con la quale è stato affermato che se l’assistenza al lavoratore, nell’ambito di una transazione in sede sindacale, è stata resa dal rappresentante di una sigla sindacale alla quale il dipendente non ha aderito, allora l’accordo non è valido ed efficace.
Rammentiamo altresì che il Tribunale di Roma (sentenza dell’8 maggio 2019) è giunto a sostenere che, affinché operi il carattere della inoppugnabilità (previsto dal comma 4 dell’art. 2113 c.c.), è necessario che la conciliazione in sede sindacale sia espressamente prevista dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, che ne disciplini sede e modalità ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c.
A ciò pure aggiungasi che la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, ritenuto necessaria la presenza di un mandato sindacale specifico conferito non nell’imminenza della conciliazione e financo di un’assistenza fornita dal sindacato di appartenenza del lavoratore e non da altri (Cass. n. 16168/2004).
Negli ultimi mesi la giurisprudenza ha altresì affrontato il tema del “luogo” in cui la conciliazione sindacale deve essere sottoscritta per essere ritenuta inoppugnabile.
Sul tema – oggetto altresì della ordinanza in commento – si richiamano due recenti precedenti giurisprudenziali.
Con l’ordinanza n. 25796 del 5 settembre 2023, la Suprema Corte – nel confermare la sentenza resa in grado d’appello – ha statuito che l’accordo conciliativo stipulato presso la sede della Prefettura con l’intervento di un rappresentante sindacale dei lavoratori non fosse riconducibile al novero delle conciliazioni non impugnabili ex art. 2113, ultimo comma, cod. civ., e ciò in quanto tale accordo non poteva considerarsi concluso presso una sede sindacale e nel rispetto delle modalità previste dal contratto collettivo di categoria ai sensi dell’articolo 412-ter c.p.c.
E ancora, pochi mesi fa, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 1975 del 18 gennaio 2024, ha statuito che la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una sua volontà genuina. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso, quindi, la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione.
La vicenda relativa all’ordinanza in commento trae origine dalla sottoscrizione di un verbale di conciliazione presso la sede aziendale, alla presenza delle parti e del rappresentante sindacale.
Con tale accordo, la società “si era impegnata a non dare seguito ai preavvisati licenziamenti collettivi di cui alla lettera di apertura della procedura di mobilità a condizione che tutte le maestranze manifest(assero) la propria accettazione alla proposta di riduzione della retribuzione mensile nella misura del 20% dell’imponibile fiscale per il periodo dall’1.3.2016 al 28.2.2018 eventualmente prorogabile per un massimo di altri due anni”.
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Con la sentenza n. 32412 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della
legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro formale nei confronti di un lavoratore
impiegato nell’ambito di un appalto non genuino.
Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro
alle dipendenze della società committente, la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento in
quanto intimato dall’appaltatrice e non dall’«effettivo» datore di lavoro e la riammissione in
servizio. La Cassazione, investita della vicenda, ha in primo luogo affermato che non è preclusa al
lavoratore la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di una situazione di
interposizione fittizia e per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze del
committente anche in caso di licenziamento irrogato dall’appaltatrice.
La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che in caso di interposizione fittizia il potere di recesso deve
essere in ogni caso esercitato dal reale datore di lavoro e non da quello fittizio, a pena di
inefficacia del recesso; il datore di lavoro sostanziale, infatti, non può avvalersi del licenziamento
irrogato dall’appaltatore quale atto di gestione del rapporto.
Con l’ordinanza n. 10734 del 22 aprile 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione – prescritto dall’art. 7 della L. n. 604/1966 per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratori assunti prima del marzo 2015 – il datore di lavoro non è tenuto ad inviare al dipendente alcuna lettera di licenziamento, essendo sufficiente l’indicazione della volontà interruttiva del rapporto contenuta nel verbale redatto innanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
All’esito del tentativo di conciliazione svoltosi avanti l’ITL ai sensi dell’art. 7 L. 604/1966, veniva redatto il verbale di mancata conciliazione, all’interno del quale veniva formalizzata la volontà dal datore di lavoro di procedere al licenziamento della dipendente per giustificato motivo oggettivo.
Successivamente la lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, eccependo, in primo luogo, l’inefficacia dello stesso per mancanza della forma scritta.
Nell’ambito della fase sommaria del c.d. Rito Fornero nonché nella successiva fase di opposizione, il Giudice accertava l’assenza di forma scritta del licenziamento, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio della dipendente.
La Corte d’Appello – adita dal datore di lavoro – riformava la sentenza resa nell’ambito dell’opposizione.
La Corte territoriale statuiva, da un lato, che fosse provata la forma scritta del recesso – e ciò in quanto la volontà di recedere dal rapporto di lavoro era contenuta nel verbale sottoscritto da entrambe le parti a conclusione della procedura ex art. 7 L. n. 604/1966 – e, dall’altro, ritendendo violato il principio di correttezza e buona fede rispetto alla scelta della lavoratrice da licenziare, dichiarava l’illegittimità del licenziamento con condanna del datore di lavoro alle conseguente di cui all’art. 18, comma 7, Stat. Lav..
La lavoratrice impugnava la sentenza avanti la Suprema Corte e la società, nel resistere con controricorso, proponeva, a propria volta, ricorso in via incidentale.
La Suprema Corte – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, preliminarmente, che la finalità dell’onere della forma scritta del licenziamento risiede nella necessità di mettere a conoscenza il lavoratore dell’atto interruttivo del rapporto.
Tale funzione – prosegue la Corte – viene assolta se la volontà di procedere al recesso sia stata formalizzata dal datore, in una sede istituzionale (come sicuramente è l’Ispettorato del lavoro ove si tiene il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966), all’interno di un verbale sottoscritto anche dal dipendente.
Il dettato normativo del terzo periodo del comma 6 dell’articolo 7 della legge n. 604/1966 (“Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore”) delinea una condizione legale (sospensiva) ed un termine (dilatorio); ragion per cui, una volta avveratasi la prima o scaduto il secondo, il datore di lavoro “può comunicare il licenziamento al lavoratore”.
Con riguardo al significato da attribuire alla condizione legale sospensiva (ossia, al fallimento del tentativo di conciliazione), per la Suprema Corte “già il dato letterale” depone nel senso che il legislatore “abbia attribuito rilievo al fatto obiettivo del fallimento del tentativo di conciliazione piuttosto che al dato cronologico e formale della chiusura del verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione”.
Inoltre, prosegue la Corte, “il tenore testuale della disposizione non impone che la comunicazione del licenziamento, consentita al datore di lavoro «Se fallisce il tentativo di conciliazione», debba intervenire in un contesto differente e successivo a quello del verbale suddetto”.
In questo senso, argomenta il Collegio, “alcuna esigenza di tutela degli interessi del lavoratore potrebbe plausibilmente giustificare l’assunto che la comunicazione del licenziamento al lavoratore debba necessariamente intervenire in un contesto distinto dal verbale redatto in sede d’incontro davanti alla commissione apposita, a patto beninteso che per la comunicazione del licenziamento già espressa in quella sede siano osservate le ulteriori prescrizioni in tema di licenziamento, a cominciare da quella della forma scritta ex art. 2, comma 1, l. n. 604/1966”.
Secondo i Giudici di legittimità, da ciò consegue che, ove il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966 fallisca ed il datore confermi la propria volontà di recedere dal rapporto, non vi è alcuna necessità di inviare successivamente al lavoratore una lettera di licenziamento.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, confermando la debenza esclusivamente di una tutela indennitaria.
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Continua a leggere la versione integrale pubblicata su (Italia Oggi, pag. 14).