Il nostro partner Alberto De Luca ha partecipato al 31° Meeting e Conferenza annuale dell’Inter-Pacific Bar Association (IPBA). Alberto ha preso parte alla tavola rotonda dal titolo: ”Lawyer, I want to fire an employee in another country for poor performance. How do I do this and what are the risks?”

Il panel ha riguardato un’indagine sul diritto del lavoro che ha coinvolto quasi 30 Paesi di tutto il mondo e che si è concentrata sulla risoluzione alternativa delle controversie (ADR) per le controversie di lavoro e sul processo del lavoro.
Nel corso del suo intervento, Alberto ha affrontato il tema della guida dei clienti nella gestione dei licenziamenti e della risoluzione delle controversie di lavoro in tutto il mondo, considerando le opzioni, i processi e i potenziali rischi legali associati a una forza lavoro regionale o globale, prestando particolare attenzione a:

Accordi di esonero
Mediazione/conciliazione
Arbitrato
Contenzioso (processo, danni, costi, ricorsi)

Con la recente ordinanza n. 1584 del 19 gennaio 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della fattispecie del licenziamento per “scarso rendimento”, stabilendo che a fondamento dello scarso rendimento non possono essere posti comportamenti già precedentemente oggetto di separati procedimenti disciplinari.

Lo scarso rendimento consiste in un inadempimento del lavoratore alla sua obbligazione principale, che è quella di svolgere la prestazione lavorativa, e si configura, quindi, come un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. È la giurisprudenza che, negli anni, ha identificato specifici e determinati limiti entro cui il licenziamento per scarso rendimento può dirsi legittimo.

I fatti di causa

Una dipendente di una compagnia ferroviaria impugna il licenziamento intimato nei suoi confronti motivato da “scarso rendimento ovvero da insufficienza imputabile a colpa del lavoratore nell’adempimento delle funzioni del proprio grado”.

Il Tribunale di Bologna, in accoglimento dell’opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, che il lavoratore aveva proposto contro l’ordinanza del medesimo Tribunale, dichiara illegittimo il licenziamento, applicando a favore del lavoratore la c.d. tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma quarto, L. n. 300/1970.

Analogamente, anche la Corte d’appello di Bologna dichiara illegittimo il licenziamento, confermando integralmente la sentenza del Tribunale e condannando la società al pagamento, in favore del lavoratore, delle ulteriori spese processuali.

I Giudici di merito giungono alla conclusione che l’atto espulsivo in questione era basato esclusivamente su precedenti contestazioni disciplinari, a carico del lavoratore, già sanzionate con misura non espulsiva, senza che la società datrice di lavoro avesse ulteriormente dedotto, sul piano oggettivo, un rendimento inferiore alla media del dipendente e, sul piano soggettivo, l’imputabilità colpa dell’agente, determinata da imperizia, incapacità e negligenza.

Rilevano, infine, che la violazione del principio ne bis in idem, con le precedenti consumazioni del potere disciplinare, si traduceva nella sostanziale insussistenza del fatto contestato posto alla base del licenziamento.

La Società, dunque, impugna la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito relativamente alla illegittimità del licenziamento.

In primo luogo, i Giudici di Cassazione ribadiscono un principio giurisprudenziale ormai consolidato in tema di scarso rendimento per cui la fattispecie di realizza, sul piano oggettivo, per un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, sul piano soggettivo, per l’imputabilità a colpa del lavoratore.

Per tale motivo, prosegue la Corte, lo scarso rendimento non può essere dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe un’indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite.

Per i Giudici di legittimità, dunque, non è consentito al datore di lavoro esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica, come invece fatto – a parere della Cassazione – dalla società ferroviaria. Il datore di lavoro, infatti, ha posto alla base nel provvedimento espulsivo esclusivamente precedenti addebiti disciplinari allo scopo di valutare complessivamente l’applicazione dell’esonero dal servizio previsto dall’art. 27, comma 1, lett. d), del regolamento attuativo, R.D. n. 148/1931 per i rapporti di lavoro degli autoferrotranvieri.

Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, è certamente possibile integrare la nozione di scarso rendimento anche sulla base di una pluralità di condotte, purché le stesse non consistano in plurimi precedenti disciplinari dei dipendenti già sanzionati – con provvedimento di natura conservativa – in passato.

Infine, la Corte di Cassazione ha altresì confermato la decisione della Corte di Appello circa il regime di tutela applicato una volta accertata l’illegittimità del licenziamento. In particolare, i Giudici hanno chiarito che se il fatto non è più sanzionabile, equivale a fatto privo di antigiuridicità e come tale riconducibile alla previsione della L. n. 300/1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92/2012 (cioè la tutela reintegratoria attenuata).

In conclusione, dunque, una volta che, di fronte ad una condotta disciplinarmente rilevante, il datore di lavoro abbia esercitato il proprio potere punitivo, non solo si verifica la consumazione del potere in capo al titolare, sicché lo stesso non può più esercitarlo per il medesimo comportamento, ma allo stesso tempo, il fatto costituente addebito disciplinare non più sanzionabile, perdendo il carattere di illiceità per l’esaurirsi del potere sanzionatorio.

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Con sentenza n. 28398 del 29 settembre 2022, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, si è espressa circa l’utilizzabilità, a fini difensivi, di registrazioni di colloqui tra il dipendente ed i colleghi sul luogo di lavoro. 

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, una dipendente era stata licenziata per giusta causa per avere violato alcune procedure aziendali di conservazione dei dati. Il licenziamento era stato ritenuto illegittimo dai giudici di merito sul presupposto che gli addebiti contestati alla lavoratrice fossero privi del carattere di gravità e non giustificassero l’irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo le previsioni del contratto collettivo applicato.  

La Corte d’Appello di Salerno aveva tuttavia escluso il carattere ritorsivo del licenziamento (invocato dalla lavoratrice), ritenendo che, il carattere ritorsivo non potesse ritenersi provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte né attraverso le “abusive, illegittimamente captate e registrate conversazioni” tra la lavoratrice e alcuni propri colleghi. 

Nell’ambito del ricorso per la cassazione della sentenza proposto dalla società datrice di lavoro, la lavoratrice proponeva ricorso incidentale, censurando la sentenza impugnata per avere escluso la ritorsività del licenziamento sulla base di un presupposto errato e cioè la non utilizzabilità delle registrazioni dei colloqui tra presenti, in contrasto con l’orientamento di legittimità e sebbene controparte non avesse in alcun modo contestato lo svolgimento dei colloqui registrati e il relativo contenuto. 

Nell’accogliere il ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice, la Suprema Corte coglie l’occasione per fare il punto sui limiti e le condizioni di utilizzabilità delle registrazioni come mezzi di prova in sede giudiziale. 

In primo luogo, si legge nella sentenza in commento, la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova, ex articolo 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa. 

L’art. 24 del Codice della Privacy prevede inoltre la legittimità delle registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore e la possibilità di un loro utilizzo in sede giudiziale, quando il loro utilizzo sia necessario per far valere o difendere un diritto e a condizione che, i dati raccolti siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. 

Pertanto, prosegue la Corte, l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.  

È dunque legittima la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto. 

Sulla base di tali premesse, la Corte di Cassazione, accoglie il ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice, rinviando la causa alla Corte d’appello di Salerno con invito a provvedere ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi di diritto richiamati. 

Il 23 febbraio 2023 Vittorio De Luca ha partecipato alla terza edizione del Welfare & HR Summit de Il Sole 24 Ore per un approfondimento sulla norma anti delocalizzazioni.

Qui il link per vedere un estratto del suo intervento.


Ai fini della verifica circa la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento è irrilevante il fatto che un’inadempienza analoga a quella contestata al lavoratore licenziato, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro. Così si è espressa la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza n. 88 del 3 gennaio 2023.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla ordinanza in commento, trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad un dirigente con funzioni di responsabile della direzione rischio e gestione crediti a cui la società aveva contestato la mancata applicazione di nuove regole di gestione dei crediti e di aver disatteso le direttive aziendali che imponevano di attendere l’autorizzazione del nuovo amministratore delegato nonché all’organizzazione di una riunione del Comitato credito senza convocare l’amministratore delegato.

Il Tribunale di Milano dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al dirigente e condannava la società a corrispondergli l’indennità sostitutiva del preavviso e la somma pari a 15 mensilità di retribuzione mensile a titolo di indennità supplementare, oltre accessori.

In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello di Milano, riteneva invece provati ed idonei a giustificare il licenziamento (pur se non per “giusta causa”) gli addebiti mossi dalla società al dirigente nella lettera di contestazione disciplinare, ritenendo tali condotte come “inappropriate rispetto al ruolo dirigenziale attribuito ed idonee a fondare la decisione, non arbitraria né pretestuosa, del datore di lavoro di porre fine al rapporto, tenuto conto dei rilevanti compiti strategici del dirigente”.

La Corte territoriale, pur confermando la debenza dell’indennità sostitutiva del preavviso, in quanto i fatti contestati non potevano integrare una giusta causa di licenziamento, condannava il dirigente a restituire le somme percepite a titolo di indennità supplementare.

Il dirigente proponeva dunque ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, lamentando, tra gli altri motivi di ricorso, che la Corte d’Appello avrebbe omesso di valutare il fatto che gli addebiti mossi erano imputabili alla responsabilità di altri soggetti a cui non era stato contestato alcun fatto, mentre l’esame di tale fatto avrebbe indotto la Corte a ritenere il licenziamento arbitrario e illegittimo.

L’ordinanza della Corte di Cassazione

Gli Ermellini, nel motivare l’infondatezza del motivo di impugnazione addotto dal dirigente, hanno richiamato il principio di diritto secondo cui “ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un’analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; tale valutazione costituisce un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità se privo di vizi logici evidenti (cfr. Cass. 14251/2015, n. 10640/2017), con la conseguenza che non è qualificabile come discriminatorio l’esercizio di discrezionalità disciplinare datoriale in relazione a posizioni differenziate, ove ancorato a specifici elementi di fatto”.