Con la recentissima sentenza n. 11344 del 30 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che i procedimenti giudiziali introdotti con il c.d. Rito Fornero prima del 28 febbraio 2023 continuano ad essere disciplinati, anche nelle fasi di impugnazione, dalle disposizioni dettate dal medesimo rito, sebbene lo stesso sia stato abrogato dalla c.d. Riforma Cartabia.
La vicenda trae origine dall’impugnazione del licenziamento da parte di un lavoratore assunto prima del marzo 2015 e, quindi, soggetto alle tutele di cui all’art. 18 Stat. Lav.
Per comprendere appieno la fattispecie in esame e le motivazioni espresse dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, è opportuno ricostruire le diverse fasi processuali, anche sotto il profilo cronologico.
Il licenziamento veniva impugnato nell’ottobre 2021 con ricorso ex art. 1, commi 47 e ss. della legge 92/2012. Il Tribunale, con ordinanza del 9 novembre 2022, a definizione della fase sommaria, rigettava il ricorso. Il dipendente proponeva quindi opposizione avverso l’ordinanza e il Tribunale, con sentenza del 6 giugno 2023, rigettava l’opposizione.
Circa sei mesi dopo, in data 1° dicembre 2023, il ricorrente adiva la Corte territoriale, depositando ricorso in appello (anziché reclamo) avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale all’esito della fase di opposizione.
La Corte d’Appello giudicava tardiva e, dunque, inammissibile l’impugnazione, in quanto proposta dal dipendente nel termine di sei mesi anziché in quello di trenta giorni previsto per il reclamo.
La Corte di merito interpretava, infatti, gli artt. 35 e 37 del D.Lgs. n. 149 del 2022 (che disciplinano, reciprocamente, la disciplina transitoria e l’abrogazione del rito Fornero) ritenendo che l’abrogazione del rito cd. Fornero trovasse applicazione solo per i procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023 e che il procedimento in oggetto, in quanto instaurato in epoca anteriore, fosse regolato dalle disposizioni processuali anteriormente vigenti, e quindi dall’art. 1, commi 47 e ss. della legge 92 del 2012.
Avverso tale pronuncia, il dipendente proponeva ricorso avanti la Suprema Corte di Cassazione, affidando la propria impugnazione ad un unico motivo di ricorso.
Secondo la tesi di parte ricorrente, una volta disposta l’abrogazione del rito cd. Fornero ad opera della riforma Cartabia, il reclamo non potesse sopravvivere.
La tesi del dipendente si fondava sul combinato disposto del primo e del quarto comma dell’art. 35, comma 1, della riforma Cartabia che, come sopra precisato, disciplinano la fase transitoria tra la vecchia e nuova normativa processuale.
In particolare, il primo comma dispone che, “salvo che non sia diversamente disposto”, le nuove disposizioni si applicano ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023 e, ad avviso del ricorrente, una deroga in tal senso è rinvenibile nel successivo quarto comma del medesimo art. 35, secondo cui le nuove diposizioni “si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023”.
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dal dipendente, ha accertato la piena correttezza dell’interpretazione fornita dai giudici di merito.
Partendo da un’analisi del tenore letterale della novella legislativa, la Suprema Corte ha statuito che l’applicazione delle nuove disposizioni alle impugnazioni proposte dopo il 28 febbraio 2023 è limitata a quelle regolate dal rito ordinario civile (di cui ai “capi I e II del titolo III del libro secondo“) e a quelle riguardanti la generalità delle cause di lavoro sottoposte al rito (ordinario) del lavoro (artt. 434, 436 bis, 437 e 438 c.p.c.).
L’art. 35, quarto comma, non estende la sua sfera di applicazione al reclamo, quale specifica forma di impugnazione nell’ambito del rito cd. Fornero, normativa a cui l’art. 35 citato non fa alcun riferimento.
Quanto sopra – evidenzia la Suprema Corte – trova altresì conferma nel “principio generale della perpetuatio iurisdictionis, secondo cui il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, poiché il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo ius superveniens trova immediata applicazione in materia processuale, si riferisce ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non all’’insieme delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, altrimenti violandosi il principio di irretroattività della legge contenuto nell’art. 11 disp. prel. c.c., di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è espressione”.
Da tali premesse discende che i procedimenti sottoposti al rito cd. Fornero, pendenti alla data del 28 febbraio 2023, sono ancora disciplinati, anche nella fase di impugnazione, dalle disposizioni dettate dall’art. 1, commi 47 e ss. della legge 92 del 2012, la cui abrogazione (art. 37, D.Lgs. 149 del 2022) ha effetto per i procedimenti instaurati successivamente al 28 febbraio 2023.
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Con l’ordinanza n. 11765 del 5 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha sancito la nullità del patto di non concorrenza caratterizzato da un’estensione territoriale eccessiva e da un corrispettivo esiguo, tali da determinare una limitazione sproporzionata e ingiustificata della capacità professionale e reddituale del lavoratore.
Nel caso in esame, un istituto bancario aveva imposto a un proprio dipendente un vincolo concorrenziale estremamente restrittivo, esteso potenzialmente a tutto il territorio nazionale ed estero, con durata prolungata e con corrispettivo modesto (10% della RAL). Nello specifico, il patto prevedeva l’impossibilità per il lavoratore di svolgere alcuna attività lavorativa nell’ambito creditizio, assicurativo e finanziario, con assoluta e totale compromissione della capacità lavorativa per 12 mesi.
La Corte territoriale aveva già dichiarato nullo il patto, rilevando la mancanza di determinatezza – o almeno determinabilità – dei limiti territoriali del vincolo, aggravata dalla facoltà del datore di modificare l’ambito geografico di applicazione attraverso lo ius variandi, rendendo incerta e mutevole la portata di tale divieto.
La Cassazione ha confermato il predetto orientamento, sottolineando che, ai sensi degli artt. 1346 e 2125 c.c., la validità del patto è subordinata:
Con specifico riferimento all’estensione territoriale del patto di non concorrenza, gli Ermellini hanno ritenuto corretto il giudizio di nullità espresso dalla Corte territoriale, che aveva individuato come affetta da indeterminatezza la clausola che rimetteva al datore di lavoro, mediante l’esercizio dello ius variandi, la facoltà unilaterale e discrezionale di modificare l’ambito geografico del patto di non concorrenza. Tale configurazione contrattuale risultava, infatti, priva di limiti determinati o quantomeno determinabili ex ante, compromettendo, così, la certezza del vincolo.
La Suprema Corte ha quindi ribadito che un patto di non concorrenza, per essere valido, deve rispondere a criteri di equilibrio e ragionevolezza, tali da non privare il lavoratore della possibilità concreta di esercitare la propria professionalità e il diritto dello stesso a percepire un compenso che sia proporzionato al sacrificio subito.
In conclusione, l’imposizione di un patto eccessivamente penalizzante per il lavoratore, privo di reali margini di autodeterminazione e di compensi congrui, comporta la nullità dell’intero accordo, a tutela dell’autonomia professionale e della libera circolazione del lavoro.
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Con la recentissima ordinanza n. 9282 dell’8 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha statuito che per i lavoratori assunti in prova, la normativa sui licenziamenti individuali (legge 604/1966, modificata nel 2010), è applicabile soltanto nel caso in cui l’assunzione diventi definitiva e comunque quando siano decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.
Una società decideva di recedere dal contratto di lavoro durante il periodo di prova per mancato superamento della stessa da parte del lavoratore.
Il recesso in prova veniva impugnato dal dipendente nel rispetto del termine di impugnazione stragiudiziale con richiesta del tentativo di conciliazione (non accettato dal datore di lavoro), ma senza rispettare il termine per il deposito del ricorso giudiziale.
La Corte d’Appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava che il deposito del ricorso da parte del dipendente era avvenuto oltre il termine di decadenza previsto dall’articolo 6 della legge 604/1966. Secondo tale norma, infatti, l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita, entro sessanta giorni dal fallimento del tentativo di conciliazione, dal deposito del ricorso giudiziale.
Il lavoratore ha impugnato la decisione della Corte d’Appello davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo che la legge 604/1966 non fosse applicabile nel suo caso, poiché, secondo l’articolo 10 della stessa legge (modificato dalla legge 183/2010), le norme sui licenziamenti si applicano solo dal momento in cui l’assunzione diventa definitiva o comunque dopo sei mesi dall’inizio del rapporto.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9282/2025, ha accolto il ricorso del lavoratore, affermando che i giudici di merito hanno erroneamente applicato la normativa sui licenziamenti individuali (art. 6 della legge 604/1966), senza considerare la peculiarità del rapporto di lavoro in prova.
La Corte ha precisato che il recesso durante il periodo di prova non rientra tra i casi di licenziamento soggetti al regime decadenziale previsto dall’articolo 6 della legge 604/1966 e dall’articolo 32 della legge 183/2010.
Ciò in quanto il patto di prova ha una natura differente, finalizzata a consentire a entrambe le parti di valutare la reciproca convenienza del rapporto, e per questo è regolato da una logica di maggiore flessibilità.
In questi casi, conclude la Corte, si applica la prescrizione ordinaria di cinque anni, non i termini decadenziali previsti per i licenziamenti ordinari.
Per queste ragioni, la Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d’Appello, disponendo il rinvio della causa alla Corte di merito per una nuova valutazione, tenendo conto della specificità del recesso avvenuto durante il periodo di prova.
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Con l’ordinanza n. 7615 del 15 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di una lavoratrice per superamento del periodo di comporto, nonostante le fossero state negate le ferie precedentemente richieste. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il diniego opposto dal datore di lavoro, in quanto motivato da comprovate esigenze organizzative aziendali, idonee a giustificare la mancata concessione del periodo feriale.
Nel caso in esame, dapprima, la lavoratrice aveva richiesto il godimento delle ferie in un momento in cui non dichiarava alcuna patologia e, successivamente, era intervenuto un nuovo periodo di malattia che aveva comportato il superamento del periodo comporto. Nella specie, la richiesta di ferie era stata avanzata in un periodo in cui l’organico dell’azienda risultava ridotto per l’assenza contemporanea di tre dipendenti su sette, circostanza che aveva portato il datore di lavoro a negare legittimamente la fruizione delle stesse.
Sul punto, gli Ermellini hanno evidenziato come, nel caso di specie, non ricorrevano due condizioni essenziali: da un lato, l’assenza di uno stato di malattia al momento della richiesta di ferie; dall’altro, la mancata richiesta, da parte della dipendente, di fruire delle ferie per interrompere il comporto. Inoltre, la lavoratrice non aveva manifestato alcun interesse a interrompere il decorso del periodo di comporto una volta insorto il nuovo evento morboso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ribadito che le ferie possono interrompere il periodo di comporto solo se richieste durante uno stato di malattia o se la malattia sopraggiunge nel corso delle ferie.
In conclusione, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto opposto dal datore di lavoro, in quanto la lavoratrice aveva chiesto il godimento delle ferie in un periodo in cui non dichiarava alcuna patologia e pertanto, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 2109 c.c., secondo cui spetta al datore di lavoro determinare il periodo di fruizione delle ferie, nel rispetto del bilanciamento tra le esigenze organizzative dell’impresa e gli interessi del lavoratore. Di conseguenza, il licenziamento per superamento del periodo di comporto è stato dichiarato legittimo.
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La corretta gestione dei controlli datoriali che possono essere attuati da un datore di lavoro è un tema da sempre sensibile per le aziende oggi reso ancor più rilevante dalla diffusione di tecnologie e strumenti sempre più evoluti. Recenti pronunce della Corte di Cassazione hanno ribadito alcuni principi fondamentali sulla legittimità delle verifiche datoriali, sia tramite agenzie investigative sia attraverso l’accesso agli strumenti informatici utilizzati dai lavoratori. È quindi essenziale per i datori di lavoro capire come bilanciare la tutela degli interessi aziendali con il rispetto della privacy dei dipendenti.
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Sez. Lav., 12 febbraio 2025, n. 3607) ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che, dopo aver timbrato il badge, si allontanava dal posto di lavoro con un mezzo aziendale per recarsi a effettuare attività personali e, quindi, non connesse in alcun modo all’esecuzione delle sue mansioni. L’elemento chiave del caso di specie è stato individuato nell’esito del controllo effettuato dall’azienda tramite il supporto di un investigatore privato che, sebbene avesse monitorato gli spostamenti del lavoratore seguendolo in luoghi pubblici, non aveva violato la sua privacy, perché, si legge nella pronuncia, l’attività di controllo si era concentrata non sull’eventuale inadempimento della prestazione lavorativa, bensì sulla verifica della condotta fraudolenta del lavoratore.
Le aziende ricorrono spesso alle agenzie investigative per accertare condotte potenzialmente illegittime da parte dei lavoratori, come l’assenteismo ingiustificato o l’uso improprio dei permessi. Tuttavia, le modalità di effettuazione di tali controlli sono regolate da limiti precisi, normativi e non. Come a più riprese affermato dalla giurisprudenza, i controlli sono legittimi solo se finalizzati a verificare condotte del lavoratore che potrebbero integrare attività fraudolente e quindi potenzialmente dannose per il datore stesso. Infatti, tali controlli non possono in alcun modo interferire o riguardare l’attività lavorativa in sé.
Un esempio tipico riguarda i controlli sulla corretta fruizione dei permessi previsti dalla Legge 104/1992, eventualmente riconosciuti ai lavoratori per finalità di assistenza ai familiari con disabilità. In caso di fondati sospetti di abuso, l’azienda può legittimamente incaricare un’agenzia investigativa per farsi supportare nell’accertamento dell’eventuale condotta illecita ma le indagini dovranno essere mirate, proporzionate e limitate a verificare l’accertamento dell’abuso sospettato. È quindi fondamentale farne un utilizzo oculato e giustificato evitando ogni forma di sorveglianza invasiva o indiscriminata.
Nell’ambito dei controlli difensivi, il datore di lavoro potrebbe avere l’esigenza di accedere ai dispositivi aziendali e agli strumenti di lavoro forniti in dotazione ai dipendenti quali, a titolo esemplificativo, laptop, telefoni e caselle e-mail. Sul tema, vale la pena menzionare l’ultima pronuncia, in ordine temporale, della Corte di Cassazione che si è espressa sulla legittimità dei controlli datoriali effettuati, nello specifico, tramite accesso alla casella di posta elettronica.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 807 del 13 gennaio 2025, ha ribadito che il datore di lavoro può accedere alle e-mail aziendali di un dipendente solo in presenza di un fondato sospetto di illecito. Il controllo deve quindi essere giustificato da un presupposto concreto di illecito e non può essere condotto in modo arbitrario o retroattivo.
La questione impone un’importante riflessione sul tema dei controlli datoriali in un contesto in cui le nuove tecnologie hanno notevolmente ampliato le possibilità di monitoraggio. È dunque essenziale definire con chiarezza quali siano i confini da considerare affinché le azioni intraprese e i dati eventualmente raccolti possano essere considerati legittimi e conformi al quadro normativo oggi vigente. Qualora tali limiti non siano rispettati, la conseguenza è che informazioni che possano confermare la commissione di illeciti siano inutilizzabili.
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