Il mancato rispetto dei termini previsti dal contratto collettivo per la comunicazione della lettera di licenziamento integra una violazione di natura procedimentale con conseguente applicazione della sanzione indennitaria dell’articolo 18, comma 6.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 10802 del 21 aprile 2023, è tornata a pronunciarsi in merito alla tempestività della comunicazione del licenziamento, analizzando, da un lato, i presupposti affinché possa trovare applicazione il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere viene manifestata e quello in cui si producono gli effetti e, dall’altro, le conseguenze sanzionatorie connesse al mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento disciplinare previsti dal contratto collettivo. 

La tempestività della comunicazione del licenziamento  

Come noto, la legge non prevede un preciso termine entro il quale il datore di lavoro, a chiusura del procedimento disciplinare, deve comunicare al dipendente il recesso. 

Ed infatti, l’art. 7 St. lav. non indica un termine “finale” entro cui la sanzione debba essere adottata, ma fissa i principi cardine in tema di procedimento disciplinare, quali la pubblicità delle norme disciplinari e il diritto di difesa del dipendente.  

La giurisprudenza ha più volte affermato che l’intimazione del licenziamento disciplinare – al pari, più in generale, dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari – deve essere connotata dal carattere di “tempestività”, al pari dalla contestazione dell’addebito (tra le tante: Cass. n. 17058 del 2003).  

Il difetto di tale requisito è infatti significativo della volontà del datore di lavoro di accettare le eventuali giustificazioni del lavoratore, al quale l’addebito sia stato contestato, o comunque di valutare la condotta del lavoratore stesso come non di gravità tale da legittimare il licenziamento: una eccessiva attesa contrasterebbe, infatti, con il presupposto della motivazione adottata (ovverosia, come espressamente disposto dall’art. 2119 c.c., “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”). 

Il carattere della “tempestività” può poi tradursi, più puntualmente, in una specifica garanzia procedimentale prevista dalla contrattazione collettiva, abilitata a specificare ulteriori elementi dell’iter procedurale tra i quali, ad esempio, l’introduzione di un termine perentorio per l’esercizio del potere disciplinare (Cass. n. 9767 del 2011), ossia di uno spatium deliberandi massimo fissato in una misura ben precisa volto a schermare il canone (meno preciso) della tempestività dell’adozione del provvedimento disciplinare.   

Si pensi, ad esempio, all’art. 240 del CCNL Commercio, in forza del quale “l’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni”, o ancora al CCNL Metalmeccanici Industria secondo cui “la contestazione dovrà essere effettuata per iscritto ed i provvedimenti disciplinari non potranno essere comminati prima che siano trascorsi 5 giorni, nel corso dei quali il lavoratore potrà presentare le sue giustificazioni. Se il provvedimento non verrà comminato entro i 6 giorni successivi alla scadenza del termine per le giustificazioni, queste si riterranno accolte” (art. 8, sezione IV, CCNL Metalmeccanici Industria). 

Nell’interpretare clausole analoghe a quelle sopra indicate, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, con plurime pronunce, che “nel caso in cui il contratto collettivo di lavoro imponga al datore l’onere di intimare la sanzione disciplinare, a pena di decadenza, entro un certo termine dalla data di ricezione delle giustificazioni fornite dal lavoratore, tale termine deve intendersi rispettato per il solo fatto che il datore abbia tempestivamente manifestato la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine” (Cass. 4.10.2010 n. 20566 e, negli stessi termini, Cass. 2.3.2011 n. 5093; Cass. 10.9.2012 n. 15102; Cass. 20.3.2015 n. 5714). 

Si è osservato, infatti, che il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere è manifestata e quello in cui si producono gli effetti ricollegabili a tale volontà, affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8830 del 14 aprile 2010, deve trovare applicazione ogniqualvolta nell’ambito del procedimento disciplinare il momento della esternazione della volontà non coincide con quello della conoscenza da parte del destinatario, perché diversamente risulterebbe intaccato il parametro di ragionevolezza ed uguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti coinvolti.  

In base al c.d. “principio della scissione”, il datore di lavoro è dunque onerato dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione (i.e. invio della lettera raccomandata o di altro mezzo idoneo), purché “demandato ad un servizio idoneo a garantire un adeguato affidamento sottratto alla sua ingerenza, in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti(Cass. n. 18823 del 2018). 

Licenziamento non tempestivo: conseguenze sanzionatorie 

Sul principio di tempestività che caratterizza il procedimento disciplinare e sul tema delle conseguenze sanzionatorie nel regime della L. n. 92 del 2012, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 30985 del 2017, hanno tratteggiato una distinzione concettuale tra la “violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi” e “la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato

La Suprema Corte ha sottolineato come nel primo caso rileva il “semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale“, mentre nel secondo caso vengono in considerazione “esigenze piu’ importanti“, come quella di “garantire al lavoratore una difesa effettiva“, di “tutelare il legittimo affidamento (del medesimo) – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile” e di “sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare“. 

In merito alle conseguenze sanzionatorie, la sentenza n. 30985 del 2017 ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare, ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso – ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’articolo 18 St. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012 -, il mancato rispetto di tali termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l’applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso articolo 18 St. lav., ossia la c.d. tutela indennitaria debole tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità. Ha invece ritenuto applicabile la tutela indennitaria forte di cui all’articolo 18, comma 5, nel caso in cui sia accertato “un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso” (v. in senso conforme, Cass. n. 12231 del 2018). 

Nei precedenti giurisprudenziali di legittimità, la violazione delle regole procedurali è stata ravvisata, ad esempio, nel caso in cui “la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore” (Cass. n. 16896 del 2016), nonché in ipotesi di “violazione dell’obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa” (Cass. n. 7392 del 2022), ritenendosi in tali fattispecie applicabile la tutela prevista dall’articolo 18, comma 6. 

Si e’, di contro, ritenuto che “il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui alla l. n. 300 del 1970, comma 4 dell’articolo 18, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito” (Cass. n. 25745 del 2016; Cass. n. 4879 del 2020). 

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La Corte di Cassazione, Sez. Lav., con ordinanza n. 12241 dello scorso 9 maggio, si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente di un’azienda informatica per essersi rifiutato di approfondire lo studio di taluni sistemi operativi e di aggiornare i programmi in uso presso un cliente. Nel caso di specie, il giudice di merito aveva appurato che il lavoratore si era rifiutato di sottoporsi alla formazione richiestagli dal suo superiore gerarchico sebbene la partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale non avrebbe comportato spese a suo carico né la necessità di usufruire di permessi o di sacrificare il proprio tempo libero. Ulteriormente accertato risultava il comportamento passivo e privo di spirito collaborativo tenuto dal dipendente presso un cliente della società, dove si era rifiutato di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi operativi. Sulla scorta di tali presupposti, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare con preavviso intimato dall’azienda, ritenendo che il comportamento tenuto dal dipendente integrasse gli estremi della grave insubordinazione, ponendosi in aperto contrasto con l’obbligo di diligenza, nel caso di specie inteso anche con riguardo alle esigenze accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente.     

Può configurare una violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà oltre che dei doveri di buona fede e correttezza l’ipotesi in cui il lavoratore, durante il periodo di malattia, tenga comportamenti che, per la loro natura, siano incompatibili con lo stato patologico accertato, tali da ritardare il rientro in servizio. In questi termini si è espressa la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 12994 del 12 maggio 2023.  

I fatti di causa 

La vicenda trae origine da un licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore cui erano stati contestati la simulazione di un infortunio avvenuto sul luogo di lavoro e una serie di condotte tali, secondo la società datrice di lavoro, da causare l’aggravamento dello stato di malattia e da ostacolare la guarigione, con conseguente sottrazione illegittima alla prestazione lavorativa. 

Il lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli avanti al Tribunale di Catania, il quale riteneva illegittimo il provvedimento della datrice di lavoro sulla base dell’assenza di prescrizioni mediche a cui il lavoratore avrebbe dovuto attenersi che prevedessero una limitazione “nei movimenti o negli spostamenti o nelle attività quotidiane, essendogli stato prescritto solo un periodo di ‘riposo e cure’”. 

La datrice di lavoro instaurava quindi il giudizio di secondo grado avanti alla Corte d’Appello di Catania la quale, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva invece giustificato il recesso poiché, in relazione alla natura della patologia e delle mansioni del dipendente, le attività svolte da quest’ultimo durante la propria assenza dal lavoro dovevano considerarsi incompatibili con lo stato di malattia e tali da pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.  

Secondo la Corte, il lavoratore – le cui condotte erano state accertate da un’agenzia investigativa incaricata dalla società datrice di lavoro – aveva “tenuto comportamenti (di protratta stazione eretta; di guida di auto, scooter o moto; di scarico e carico di scatoloni; di spazzamento del marciapiedi antistante l’esercizio commerciale intestato ai familiari; di ripetuti spostamenti a piedi; di montaggio con altri di un portabagagli sulla propria vettura; di carico e scarico di materiale edile) […] integranti una condotta incauta per inosservanza delle prescrizioni mediche di “riposo e cure”” e tali da aver, “con un elevatissimo grado di probabilità prossimo alla certezza, ostacolato e ritardato la guarigione”, “in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede, integrante giusta causa di recesso datoriale”. 

Il lavoratore, quindi, proponeva ricorso per Cassazione lamentando, tra altro, di non aver svolto alcun tipo di attività lavorativa o ludica, ma di aver solamente tenuto comportamenti riconducibili alle normali attitudini di vita quotidiana/familiare. 

L’ordinanza della Corte di Cassazione 

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso proposto e ribadisce come la condotta del lavoratore che svolga altra attività durante lo stato di malattia violi “gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede […] anche nel caso in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. 5 agosto 2014, n. 17625; Cass. 27 aprile 2017, n. 10416; Cass. 19 ottobre2018, n. 26496)”.  

Gli Ermellini, inoltre, richiamando una recente pronuncia (Cass. 26 aprile 2022, n. 13063) sottolineano in particolare il ““peculiare rilievo” dell’“eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele […] atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati […]”. 

Lo scarso rendimento o “poor performance” consiste in un inadempimento del lavoratore alla sua

obbligazione principale, ossia di svolgere la prestazione lavorativa, e si configura, secondo

l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, come un giustificato motivo soggettivo di

licenziamento. Di recente, la Corte di Cassazione, Sezione lavoro., con sentenza n. 1584 del 19

gennaio u.s., ha ribadito che, per poter legittimamente licenziare un lavoratore per scarso

rendimento, è necessaria la contemporanea sussistenza di due presupposti il cui onere della prova

ricade sul datore di lavoro: (i) sul piano oggettivo deve sussistere un’enorme sproporzione tra gli

obiettivi fissati per il dipendente e quanto dallo stesso effettivamente realizzato rispetto ai risultati

globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti adibiti al medesimo incarico; (ii) sul

piano soggettivo, l’imputabilità di suddetta sprorporzione a colpa del lavoratore, ossia a un

comportamento negligente del lavoratore non ascrivibile all’organizzazione del lavoro da parte

dell’imprenditore. Secondo la sentenza sopra richiamata inoltre “Lo scarso rendimento non può

essere di per sé dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato

(ndr.con sanzioni conservative), perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione

degli effetti di condotte ormai esaurite”.

Massima  

Lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite. Occorre, infatti, rilevare che anche nella fattispecie di scarso rendimento trova applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica. 

Abstract  

La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 1584 del 19 gennaio 2023, è tornata ad occuparsi della fattispecie del licenziamento per scarso rendimento. La Suprema Corte, richiamando i proprio precedenti, ha statuito che lo scarso rendimento si connota, sul piano oggettivo, per un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, sul piano soggettivo, per la relativa imputabilità a colpa del lavoratore. Per tale motivo, lo scarso rendimento non può essere dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, sussistendo il divieto, più volte affermato dai giudici di legittimità, di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto. 

Scarso rendimento: nozione giurisprudenziale 

Il licenziamento per scarso rendimento non è disciplinato da una specifica disposizione di legge. Il riferimento normativo a cui occorre far riferimento è l’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale dispone: «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (ndr. c.d. licenziamento per giustificato motivo soggettivo) ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (ndr. c.d. licenziamento per giustificato motivo oggettivo).  

Partendo dal dato testuale della norma, negli anni sono state formulate diverse ipotesi circa la natura di tale fattispecie di licenziamento. In particolare, il licenziamento per scarso rendimento, da un lato, è stato ricondotto a una forma di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e, dall’altro lato, è stato annoverato tra le forme di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.   

La giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte è orientata nel riconoscere allo scarso rendimento una valenza di carattere soggettivo, in quanto indice di una prestazione inadeguata, in termini quantitativi e qualitativi, sotto il profilo del diligente adempimento degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro1

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato che “In tema di licenziamento per scarso rendimento deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo trattandosi di un licenziamento fondato su un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore, lesivo dei suoi doveri contrattuali e, dunque, integrante un inadempimento delle obbligazioni nascenti da rapporto di lavoro. Pertanto, il licenziamento per scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore” (Cass. 22 novembre 2016, n. 23735). 

Il lavoratore, come noto, è tenuto a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie, svolgendo, nei tempi e nei modi stabiliti, la prestazione lavorativa richiesta secondo le disposizioni da quest’ultimo impartitegli e ad agire, ai sensi dell’art. 2104 cod.civ., con la diligenza richiesta “dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa“. 

La norma codicistica sopra citata fa riferimento ad una diligenza c.d. qualificata che varia in relazione al contenuto delle mansioni affidate al lavoratore e, dunque, al diverso livello di complessità e responsabilità ad esso connesso.  

Per poter configurare un’ipotesi di legittimo licenziamento per scarso rendimento, la giurisprudenza richiede la necessaria sussistenza dei seguenti elementi: 

a) il licenziamento deve fondarsi su un elemento di carattere oggettivo, ovvero sull’esistenza di una notevole sproporzione tra i risultati conseguiti e gli obiettivi assegnati. La valutazione di tale aspetto non deve però essere effettuata in astratto, bensì utilizzando quale parametro un rendimento concretamente esigibile, che tenga conto del rendimento medio degli altri dipendenti in analoghe funzioni e mansioni (tra le molte: Cass. 18317/16; 14310/2015; Cass. 24361/2010; Cass. 1632/2009). 

b) in secondo luogo, è necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo, ovverosia l’imputabilità al lavoratore della sproporzione tra i risultati attesi e quelli conseguiti. In altri termini, è necessario che sussista un colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali gravanti sul lavoratore e non invece una sproporzione tra i risultati attesi e quelli conseguiti ascrivibile all’organizzazione del lavoro o ad altri fattori non riferibili al lavoratore (tra le molte: Cass. 10 novembre 2017, n. 26676; Cass. 23 marzo 2017, n. 7522; Cass. 14 febbraio 2017, n. 3855; Cass. 19 settembre 2016, n. 18317). 

La prova in giudizio di tali elementi dovrà essere fornita dal datore di lavoro. In questo quadro, è principio consolidato quello per cui il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare un «notevole inadempimento» degli obblighi contrattuali del lavoratore allo stesso imputabile, intesi quale «fatto complesso» (Cass. 17371/2013), quindi non episodico ma caratterizzato da valutazioni che abbracciano un «apprezzabile periodo di tempo» (Cass. 14310/2015). Al lavoratore, invece, spetterà dimostrare che lo scarso rendimento sia dovuto a causa a lui non imputabile. Il lavoratore sarà, in altre parole, tenuto a dimostrare le ragioni di esonero o di attenuazione della sua responsabilità. 

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore.