La Suprema Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 88 del 3 gennaio 2023, chiarisce il sottile
confine sussistente tra le nozioni di giusta causa e di giustificatezza in materia di licenziamento del
dirigente. La Suprema Corte ritiene che perché sussista la giustificatezza del licenziamento del dirigente sia sufficiente la dimostrazione di due dei sei addebiti disciplinari originariamente contestati al dirigente. Ne consegue che l’assenza di giusta causa di recesso, da un lato, e la sussistenza delle giustificatezza, dall’altro, comporta il diritto del dirigente a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso ma non anche l’indennità supplementare.
Giustificatezza e giusta causa: nozioni a confronto
Sotto il profilo normativo, il recesso datoriale dal rapporto di lavoro dirigenziale si distingue da quello
relativo a tutti gli altri rapporti di lavoro, inquadrandosi nell’ambito della libera recidibilità. La
ragione di quanto sopra è rinvenibile nella peculiarità della figura dirigenziale caratterizzata dalla
vicinanza alla posizione del datore di lavoro e, quindi, dell’imprenditore del quale i dirigenti
costituiscono un alter ego de facto. Tale vicinanza si traduce, tra l’altro, in un’elevata e particolare
intensità del vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro al dirigente. In ragione di ciò, il legislatore
ha ritenuto di non limitare la scelta imprenditoriale relativa alla necessità di recedere dal rapporto di
lavoro dirigenziale. Su tale impianto normativo si è innestata la regolamentazione di fonte collettiva
che ha delineato la nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente. La giurisprudenza ha
sottolineato come la giustificatezza sia un concetto di derivazione negoziale e, quindi, da interpretare
secondo le regole generali di ermeneutica contrattuale, inclusi i principi generali di buona fede e
correttezza, sanciti dagli artt. 1175 1375 cod. civ. Pertanto, la giustificatezza si distingue dalle
motivazioni del licenziamento previste dalla legge, essendo integrata ogni qual volta il recesso non
sia arbitrario o pretestuoso e, quindi, del tutto sfornito di una motivazione apprezzabile (ex multis
Cass. n. 23894 del 2.10.2018). Nell’ambito della decisione in commento, assume particolare rilevanza
la distinzione tra giustificatezza e giusta causa del licenziamento. Infatti, solo quest’ultima legittima il
c.d. licenziamento in tronco, senza obbligo di preavviso a carico del datore di lavoro. L’art. 2119 c.c..,
che disciplina la giusta causa di recesso, prevede la facoltà di recedere dal contratto prima della
scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso se il contratto è a
tempo indeterminato, “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto”. In tema di licenziamento del dirigente, la giurisprudenza ha precisato che “la giusta causa, che esonera il datore di lavoro dall’obbligo di concedere il preavviso o di pagare l’indennità sostitutiva, non coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di lavoro soltanto dall’obbligo di pagare l’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che, valutato in concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto” (Cass. n. 6110 del17.3.2014. In termini:
Cass. n. 34736 del 30.12.2019; Cass. n. 5671 del 10 aprile 2012). Come da giurisprudenza consolidata, la nozione di giustificatezza è, dunque, del tutto autonoma e svincolata da quella di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, inquanto maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio ai fatti idonei a scuoterla (Cass. 6950/2019). Pertanto, ai fini della giustificatezza del recesso, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore – tenuto conto anche dell’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente – e, come tale, atto a escludere l’arbitrarietà del licenziamento (Cass. 27971/2018). Infatti, in considerazione della particolare posizione rivestita dal dirigente, il rapporto fiduciario potrebbe essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative dell’azienda, o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro ovvero da un comportamento extra-lavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente (Cass. 2205/2016).
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Con sentenza n. 28398 del 29 settembre 2022, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, si è espressa circa l’utilizzabilità, a fini difensivi, di registrazioni di colloqui tra il dipendente ed i colleghi sul luogo di lavoro.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, una dipendente era stata licenziata per giusta causa per avere violato alcune procedure aziendali di conservazione dei dati. Il licenziamento era stato ritenuto illegittimo dai giudici di merito sul presupposto che gli addebiti contestati alla lavoratrice fossero privi del carattere di gravità e non giustificassero l’irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo le previsioni del contratto collettivo applicato.
La Corte d’Appello di Salerno aveva tuttavia escluso il carattere ritorsivo del licenziamento (invocato dalla lavoratrice), ritenendo che, il carattere ritorsivo non potesse ritenersi provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte né attraverso le “abusive, illegittimamente captate e registrate conversazioni” tra la lavoratrice e alcuni propri colleghi.
Nell’ambito del ricorso per la cassazione della sentenza proposto dalla società datrice di lavoro, la lavoratrice proponeva ricorso incidentale, censurando la sentenza impugnata per avere escluso la ritorsività del licenziamento sulla base di un presupposto errato e cioè la non utilizzabilità delle registrazioni dei colloqui tra presenti, in contrasto con l’orientamento di legittimità e sebbene controparte non avesse in alcun modo contestato lo svolgimento dei colloqui registrati e il relativo contenuto.
Nell’accogliere il ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice, la Suprema Corte coglie l’occasione per fare il punto sui limiti e le condizioni di utilizzabilità delle registrazioni come mezzi di prova in sede giudiziale.
In primo luogo, si legge nella sentenza in commento, la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova, ex articolo 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa.
L’art. 24 del Codice della Privacy prevede inoltre la legittimità delle registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore e la possibilità di un loro utilizzo in sede giudiziale, quando il loro utilizzo sia necessario per far valere o difendere un diritto e a condizione che, i dati raccolti siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Pertanto, prosegue la Corte, l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
È dunque legittima la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.
Sulla base di tali premesse, la Corte di Cassazione, accoglie il ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice, rinviando la causa alla Corte d’appello di Salerno con invito a provvedere ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi di diritto richiamati.
Con la recente ordinanza del 16 dicembre 2022, il Tribunale di Foggia, nell’ambito della prima fase del c.d. Rito Fornero, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva prestato attività lavorativa a favore di terzi durante la malattia.
Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, il lavoratore si assentava dal lavoro per malattia nei giorni 9 e 10 novembre, inviando poi un secondo certificato di prosecuzione della malattia a copertura dei giorni 11, 12 e 13 novembre.
Durante il periodo di malattia, la società conduceva alcune investigazioni, nel corso delle quali emergeva che il dipendente, nei giorni 10, 11 e 13 novembre, aveva svolto attività lavorativa in un pub gestito dalla moglie.
La società avviava il procedimento disciplinare, contestando al dipendente la simulazione dello stato di malattia, l‘inidoneità della stessa a determinare uno stato di incapacità lavorativa, nonché, ove sussistente la malattia, la ripetuta violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare i tempi di rientro al lavoro.
Nell’articolare le proprie giustificazioni, il dipendente dichiarava che la malattia era stata regolarmente certificata dal proprio medico e che, per mero spirito di collaborazione familiare e in via del tutto eccezionale, il lavoratore acconsentiva ad aiutare sua moglie, precisando che tale attività veniva prestata al di fuori dell’orario di lavoro e senza percepire alcun corrispettivo.
La società, ritenendo di non poter accogliere le giustificazioni rese dal dipendente, intimava allo stesso il licenziamento per giusta causa.
Attraverso una compiuta analisi dei documenti prodotti in giudizio dal datore di lavoro – tra cui la relazione investigativa che descriveva dettagliatamente le attività poste in essere dal lavoratore durante l’assenza per malattia – il Tribunale ha accertato che il comportamento tenuto dal dipendente avesse violato i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione contrattuale.
Ed infatti, analizzando i fatti risultanti dalla relazione investigativa, emergeva che il lavoratore aveva utilizzato – di sera, nel mese di novembre e, dunque, con temperature rigide – un monopattino elettrico per raggiungere il pub, aveva poi servito ai tavoli, preso le ordinazioni e si era trattenuto nel pub fino alle ore 23.
Trattasi di comportamenti che – secondo la valutazione del giudice – hanno dimostrato una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, con conseguente compromissione dell’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta.
Il Tribunale, pertanto, accertando la violazione da parte del dipendente del proprio dovere di osservare tutte le cautele volte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dalla malattia, ha rigettato il ricorso promosso dal dipendente, confermando la piena legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.
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Con ordinanza n. 770, del 12 gennaio 2023, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che, nell’ambito della propria prestazione lavorativa, non si era attenuta alle modalità di esecuzione previste da apposita policy aziendale.
Secondo la Suprema Corte, in tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo giustificare il licenziamento per giusta causa, a meno che tale rifiuto non sia improntato a buona fede.
Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, la lavoratrice – addetta alla cassa di un supermercato – era stata licenziata (per giusta causa) per aver consentito che tre clienti oltrepassassero la barriera della cassa lasciando i prodotti nei carrelli e per aver omesso di invitarli a depositare la merce sul nastro trasportatore come previsto dal regolamento aziendale.
Alla lavoratrice veniva inoltre contestato di aver omesso di eseguire un controllo diretto dei prodotti presenti nel carrello, limitandosi a registrare sul misuratore fiscale le quantità di ciascuna tipologia di prodotto indicata dagli stessi clienti.
Il prezzo pagato dai tre clienti risultava poi essere, a seguito del successivo intervento dei carabinieri chiamati dall’addetto alla vigilanza, notevolmente inferiore rispetto alla quantità di merce che era presente nel carrello.
Il giudice di prime cure riteneva legittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice, ritenendo che la stessa avesse posto in essere una condotta negligente.
La Corte d’Appello di Roma ribaltava la sentenza emessa in primo grado, e, a seguito del ricorso proposto dalla Società, la questione veniva posta all’attenzione della Corte di Cassazione.
Gli Ermellini, nel confermare l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice, si soffermano dettagliatamente ad analizzare la disciplina di cui all’art. 1460 del codice civile relativa all’eccezione di inadempimento, in questo caso, nell’ambito di un contratto di lavoro.
La Corte ricorda che sul tema dell’inadempimento di una delle parti nei contratti di lavoro, precedenti pronunce avevano ritenuto che, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.
Vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova infatti applicazione il disposto dell’articolo 1460 c.c., comma 2, in base al quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. n. 434 del 2019; Cass. n. 14138 del 2018; Cass. n. 11408 del 2018).
Il giudice deve quindi procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che ove l’inadempimento di una parte non sia grave oppure abbia scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte, il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non potrà considerarsi in buona fede e, quindi, non sarà giustificato ai sensi dell’articolo 1460 c.c., comma 2 (Cass. n. 11430 del 2006).
In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’articolo 1460 c.c., comma 2, secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete (v. Cass. n. 12777 del 2019).
Nel caso di specie, secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello di Roma si sarebbe scrupolosamente attenuta ai principi sopra richiamati ritenendo che:
Alla luce dei principi sopra esposti, la Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice con applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’art. 18, co.4, L. 300/1970 (applicabile al caso di specie).
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Poiché sono stati considerati solo i dati di geolocalizzazione riferiti ai chilometri percorsi, l’ingerenza nella vita privata del ricorrente è stata limitata e proporzionale rispetto allo scopo perseguito.
Il licenziamento intimato dal datore di lavoro basato sulle risultanze del sistema di
geolocalizzazione dell’auto aziendale del dipendente è legittimo e la raccolta e il trattamento dei
relativi dati non comportano una violazione dei diritti del lavoratore come sanciti dalla Convenzione
dei Diritti dell’Uomo.
A stabilirlo, segnando un importante precedente su questa dibattuta tematica, è stata la sentenza
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo n. 26968/1616 emessa a conclusione del procedimento
Gramaxo contro Portogallo. È la prima volta che la Corte Europea si pronuncia su un caso di
sorveglianza sul lavoro attraverso il sistema di geolocalizzazione e fissa i criteri per il giusto
bilanciamento tra il diritto del lavoratore al rispetto della sua vita privata e le prerogative datoriali in
termini di controllo sul corretto impiego dei beni strumentali.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo al licenziamento di un dipendente
informatore scientifico del farmaco di un’azienda farmaceutica portoghese al quale, in ragione della
mobilità associata al lavoro svolto, l’azienda aveva assegnato un’auto ad uso promiscuo, lavorativo e
privato.
A distanza di tempo, la società aveva installato un sistema di posizionamento globale via satellite
(GPS) su tutti i veicoli aziendali.
A seguito di un controllo dei dati raccolti attraverso i sistemi installati era emerso che il dipendente
in questione aveva manomesso il funzionamento del sistema di controllo per far risultare un
impiego del mezzo per motivi di lavoro superiore a quello effettivo e così un impiego del mezzo per
motivi privati inferiore anche al fine di ridurrei i costi a proprio carico.
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