La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22115 del 13 luglio 2022, ha affermato che la possibile valorizzazione da parte del giudice di situazioni similari, al fine di una valutazione di irragionevole disparità, non può che trovare presupposto in allegazioni presenti nella causa, tali da consentire una indagine di fatto ed una possibile comparazione.
Un lavoratore veniva licenziato a causa di un incidente occorso con l’autovettura di servizio. Nella specie l’autovettura guidata dal lavoratore su cui veniva posizionata la gru retrocabina andava a sbattere, a causa del suo mal posizionamento, contro la trave del ponte situato sulla strada provinciale percorsa.
La società, nel procedere con il suo licenziamento per giusta causa, aveva valutato la grave inadempienza del lavoratore, causativa dell’incidente, oltre che la mancata compilazione del disco orario obbligatorio e del cronotachigrafo, attestativo della velocità del mezzo.
In primo e secondo grado il licenziamento in questione veniva dichiarato legittimo.
Avverso la decisione di merito, il lavoratore ricorreva in cassazione, con un unico motivo di doglianza. Secondo il lavoratore, la Corte d’Appello non aveva considerato la doglianza sollevata con riguardo al diverso trattamento riservato ad altri dipendenti per inadempienze similari alla sua.
A fondamento della sua tesi il ricorrente richiamava i principi espressi dalla Cassazione secondo i quali “seppur ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento sia irrilevante che un’analoga inadempienza commessa dall’altro dipendente sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, tuttavia l’identità delle situazioni può privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa” (cfr. Cass. 14251/2015; Cass.n.5546/2010; Cass.n.10550/2013).
Sul punto la Corte di Cassazione adita ha evidenziato che le stesse pronunce richiamate dal ricorrente a fondamento della sua tesi testualmente chiariscono che “È condivisibile l’affermazione che non si possa porre a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, una motivazione del provvedimento adottato che sia comparata con le altre assunte in fattispecie analoghe (cft. Cass. n. 5546/2010) e tuttavia ove nel corso del giudizio non emergano quelle differenze che giustificano il diverso trattamento dei lavoratori correttamente può essere valorizzata dal giudice l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali al fine di valutare la proporzionalità della sanzione adottata”.
Pertanto, a parere della Corte, l’eventuale disparità deve emergere nel corso del giudizio attraverso elementi significativi e tali da non richiedere una contestuale ricognizione da parte del datore di lavoro diretta a giustificare la diversità dei trattamenti adottati.
Alla luce di questi principi, la Corte ha considerato il motivo così come formulato dal lavoratore manchevole di quelle necessarie indicazioni che avrebbero dovute essere allegate già nel giudizio di merito. Pertanto, la stessa ha rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese processuali.
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La Corte costituzionale, con sentenza n. 183 depositata il 22 luglio 2022, è intervenuta sul regime di tutele previste in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende con meno di 15 dipendenti, invitando il Parlamento a modificare l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015.
Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione del giudice del lavoro, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in ordine all’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015. La disposizione è censurata limitatamente alle parole “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della L. n. 300 del 1970, … l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, … è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
In particolare, il Tribunale, chiamato decidere sul ricorso proposto da una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo da un datore che non raggiungeva la soglia dei 15 dipendenti, ha ritenuto non dimostrata la sussistenza del giustificato motivo. E con riferimento all’indennità spettante alla lavoratrice ha rilevato che essa, dovendo essere individuata “nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità”, sarebbe inidonea “a soddisfare il test di adeguatezza e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata”.
Il Tribunale ha prospettato il contrasto della disposizione in esame con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea. A parere dello stesso, la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro è fondata “su un elemento che risulta esterno al rapporto di lavoro”. La tutela del diritto al lavoro, che si tradurrebbe nell’imposizione di limiti al potere di recesso del datore di lavoro, potrebbe essere anche affidata a un meccanismo monetario, a condizione che sia garantita la complessiva adeguatezza del risarcimento, prescritta anche dall’art. 24 della Carta sociale europea.
Il Tribunale è dell’avviso che “la previsione di un indennizzo così esiguo”, non superiore alle sei mensilità e senza neppure “l’alternativa della riassunzione”, non attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. L’art. 24 della Carta sociale europea, nell’imporre un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione nel caso di licenziamento intimato senza un valido motivo, vieterebbe in linea di principio la predeterminazione di un tetto massimo, che svincola l’indennità dal danno subìto e non presenta un carattere sufficientemente dissuasivo.
Ha anche osservato il Tribunale che “la “funzione compensativa” e “l’efficacia deterrente della tutela indennitaria” sarebbero compromesse (…) dalla previsione di un’indennità “ricompresa in un divario fra tre e sei mensilità”, che rappresenterebbe “una forma pressoché uniforme di tutela” e finirebbe per attribuire rilievo esclusivo al “numero degli occupati”. Si tratterebbe di “criterio trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia”, che non consentirebbe alcun adeguamento dell’importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto e, in particolare, alla “gravità della violazione”, al più significativo criterio delle dimensioni dell’impresa, legato anche ai “dati economico finanziari ricavabili dai bilanci”.
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la rimessione del Tribunale di Roma circa l’indennità risarcitoria ex art. 9 del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo nelle aziende sotto i 15 dipendenti. Tuttavia, ha riconosciuto che l’assetto delineato dal D.Lgs. n. 23/ 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle sue più risalenti pronunce.
La reintegrazione, a parere della Consulta, è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio distintivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.
A parere della Consulta, in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto. Tant’è che l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.
Inoltre, la Consulta evidenzia che in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Continua la Corte, precisando che il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.
In conclusione, la Corte riconosce “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente (alias il Tribunale di Roma)” e sottolinea “la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”.
Tuttavia, la Corte precisa che a questo “vulnus” non può dare rimedio essa stessa, rientrando “nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (…), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso”.
Nel concludere, la Corte dichiara di non potersi esimere “dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (…)”.
Si tratta, in sostanza, di un chiaro invito al legislatore a rivedere l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015, in mancanza del quale la Consulta si vedrà costretta ad intervenire.
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La Corte di Cassazione si pronuncia sul ricorso di un dipendente che aveva impugnato il licenziamento disciplinare per un incidente stradale mentre guidava l’auto aziendale, deducendo una disparità di trattamento con colleghi che, in situazioni simili, non avevano subìto tale sanzione. Dichiarando inammissibile il ricorso, la Corte Suprema ha sottolineato che per una valutazione di irragionevole disparità, la possibile considerazione di situazioni analoghe deve trovare presupposto in allegazioni presenti nella causa, consentendo una comparazione
La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguarda il caso di un lavoratore che impugnava giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli per aver cagionato, mentre era alla guida dell’autovettura aziendale, un incidente stradale danneggiando il ponte situato sulla strada provinciale percorsa.
Precisamente, in tale occasione l’autovettura di servizio guidata dal dipendente, su cui era posizionata la gru retrocabina, andava a sbattere, a causa del mal posizionamento di quest’ultima, contro la trave del ponte situato sulla strada provinciale percorsa.
La società datrice di lavoro valutava la grave inadempienza del dipendente, causativa dell’incidente, oltre che la mancata compilazione del disco orario obbligatorio e del cronotachigrafo, attestante la velocità del mezzo, e quindi recedeva dal rapporto di lavoro senza preavviso.
La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza n. 469/2019, rigettava il reclamo proposto dal lavoratore avverso la decisione con cui il Tribunale di Ferrara aveva dichiarato legittimo il licenziamento a lui intimato dalla società datrice di lavoro, a causa dell’incidente occorso.
Nello specifico, per quel che in questa sede rileva, la Corte territoriale riteneva legittimo il licenziamento, attesa la gravità della condotta fortemente lesiva del vincolo fiduciario, anche valutando proporzionata la sanzione espulsiva.
Il lavoratore impugnava la decisione, ricorrendo per Cassazione, con unico motivo di doglianza, deducendo una disparità di trattamento con altri suoi colleghi che in passato avevano tenute condotte simili senza essere destinatari di una sanzione espulsiva.
A tal riguardo, il ricorrente evidenziava come la Corte territoriale non avesse considerato in alcun modo l’eccezione sollevata con riguardo al diverso trattamento riservato ad altri dipendenti per inadempienze similari a quelle del ricorrente.
In particolare, il lavoratore richiamava quei principi della Cassazione in virtù dei quali “seppur ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento sia irrilevante che un’analoga inadempienza commessa da altro dipendente sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, tuttavia l’identità delle situazioni può privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa” (tra le quali si ricordano Cass. n. 14251/2015; Cass. n. 5546/2010; Cass. n. 10550/2013).
Tuttavia, al fine di comprendere meglio il ragionamento argomentativo e la decisione della Corte di Cassazione di cui si dirà infra, è opportuno richiamare nella sua interezza e completezza il principio di diritto richiamato dal lavoratore ricorrente.
Infatti, secondo Cass. 14251/2015, rileva, in questo senso, il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro.
Continua a leggere la versione integrale sul Modulo24 Contenzioso del Lavoro de Il Sole 24 Ore.
La Cassazione, con sentenza n. 19321, pubblicata il 15 giugno 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato ad un dipendente che ha prestato attività lavorativa durante il periodo di congedo per “gravi motivi familiari”.
Nel caso oggetto della pronuncia della Cassazione n. 19321/2022, il lavoratore in questione, in data 15maggio 2017, ha chiesto di usufruire dell’aspettativa per il periodo dal 1° giugno 2017 al 30 settembre2017, allegando, a fronte della richiesta della società di specificare i motivi della richiesta, il certificato medico di gravidanza della moglie, che indicava la presenza di minacce di aborto e prescriveva 30giorni di cure e riposo domiciliare.
La società, con nota del 1° giugno 2017, ha accolto la richiesta, qualificandola come aspettativa per “gravi motivi familiari” ai sensi dell’art. 157 (già art. 151) del contratto collettivo nazionale di riferimento e dell’art. 4, comma 2, della legge n. 53 del 2000.
Durante il periodo di aspettativa, la società ha condotto alcune investigazioni, nel corso delle quali è emerso che il dipendente ha svolto attività di pulizia in favore della ditta di cui egli stesso o la moglie erano titolari.
Il 1° agosto 2017 la società ha dunque avviato un procedimento disciplinare, che si è concluso con il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente il 25 agosto 2017.
La Corte d’Appello ha ritenuto sussistente il giustificato motivo soggettivo di licenziamento in quanto il lavoratore ha violato l’espresso divieto, posto dall’art. 4, comma 2, legge n. 53 del 2000 e dall’art. 157del contratto collettivo, di svolgere attività lavorativa durante il periodo di congedo per gravi motivi familiari.
Il dipendente ha impugnato il provvedimento con ricorso per Cassazione, sostenendo che l’aspettativa richiesta (i) era un’aspettativa per “motivi personali” e non per “gravi motivi familiari”, e che, pertanto, non trovavano applicazione le disposizioni normative sopra richiamate ed i conseguenti divieti; (ii) non aveva comportato benefici economici per il lavoratore, dal momento che l’attività lavorativa era stata prestata presso l’azienda propria e della moglie; (iii) non aveva causato alcun danno alla società, che si trovava in regime di contratti di solidarietà difensiva e, pertanto, non aveva avuto la necessità di sostituire il dipendente.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13063 del 26 aprile 2022, ha esteso l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria all’ipotesi in cui il fatto contestato risulti sussistente e non sia contemplato tra le infrazioni punite dal contratto collettivo di settore con una sanzione conservativa.
La Suprema Corte estende così l’ambito del giudizio di proporzionalità, da parte del giudice, a distanza di due sole settimane dalla pronuncia della sentenza n. 1165 dell’11 aprile 2022. Sentenza in cui era stata affermata l’applicabilità della reintegrazione anche nel caso in cui la condotta addebitata al lavoratore, pur non essendo espressamente contemplata nell’elenco delle infrazioni punite dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, possa essere fatta rientrare attraverso l’interpretazione, da parte del giudice del merito, delle clausole generali o elastiche presenti nella contrattazione collettiva di riferimento.
In tal modo, il giudice si riappropria di un ampio spazio di valutazione circa la proporzionalità tra la condotta contestata e il licenziamento intimato, alla stregua di ciò che avveniva prima della riforma Fornero, quando la reintegrazione era applicabile in tutti i casi di mancanza di proporzionalità tra il fatto contestato e il recesso.
In sostanza, viene riconosciuto al giudice di merito il potere di valutare – attraverso un giudizio comparativo- la gravità dell’addebito contestato al lavoratore rispetto alla gravità che, sempre secondo la sua valutazione, debba essere riconosciuta ad una qualsiasi delle altre infrazioni punite con sanzione conservativa dal contratto collettivo.
La conseguenza è che, in questo modo, viene reintrodotto un nuovo profilo di incertezza che riguarda sia l’esito dell’interpretazione delle disposizioni della contrattazione collettiva, spesso generiche e imprecise, sia l’esito del giudizio di proporzionalità tra la condotta contestata al lavoratore e l’intero elenco delle infrazioni previste dalla contrattazione collettiva di riferimento.
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