La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3724/2022, depositata il 2 febbraio, ha dichiarato che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che prospetta la perdita del lavoro per costringere i dipendenti ad accettare condizioni economiche non adeguate alle prestazioni dagli stessi effettuate.

I fatti di causa

Due dipendenti agivano nei confronti del proprio datore di lavoro, operante nel settore alberghiero, affinché venisse accertata la configurabilità del delitto di estorsione, per essere stati costretti ad accettare trattamenti retributivi sfavorevoli, pena il licenziamento.

I giudici di merito (Tribulane di Sulmona prima e Corte dall’Appello dell’Aquila dopo) respingevano il ricorso promosso dai due dipendenti escludendo la configurabilità del reato di estorsione per mancata sussistenza dell’elemento della minaccia.

Dalla lettura della sentenza di secondo grado emerge che ai dipendenti veniva richiesto di lavorare oltre il loro normale orario di lavoro, in maniera pressoché ininterrotta (anche per venti ore al giorno), espletando anche altre mansioni rispetto a quelle contrattualmente pattuite nonché subendo continue vessazioni da parte del datore di lavoro stesso. Tuttavia, a parere dei giudici, i due dipendenti, da un lato, avevano la libertà di scegliere di non proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizioni di lavoro e, dall’altro, non versavano in una condizione di debolezza, data la particolarità del contesto economico e, specificamente, del settore alberghiero, nonché dell’agiato ambiente familiare di provenienza.

I dipendenti, dunque, impugnavano la sentenza emessa dai giudici di merito con ricorso in Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso dei due dipendenti, ha affermato che la sentenza impugnata non considera che la nozione di minaccia implica che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta da adottare, nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo (i.e., il datore di lavoro) si avrebbe la conseguenza dell’ingiustizia prospettata.

Pertanto, prosegue la Cassazione, la rimessione al soggetto passivo (i.e., i dipendenti) della scelta della condotta da adottare non può essere utilizzata quale elemento per escludere la sussistenza della minaccia e, dunque, dell’estorsione.

Quanto sopra, supera anche le argomentazioni della Corte di Appello, per cui il datore di lavoro non aveva prospettato il licenziamento ma aveva unicamente affermato che a chi non fossero piaciute le condizioni di lavoro era “libero di andare via”. La citata affermazione, infatti, per la Cassazione pone in ogni caso il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, risultando irrilevante che tale eventualità potesse realizzare una decisione “volontaria” dello stesso. Inoltre, tale comportamento assume rilievo penale perché le condizioni di lavoro indicate come alternativa alla perdita del lavoro sono inique e illegittime.

Alla luca di quanto sopra, la Cassazione ha affermato il principio giuridico secondo il quale integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate.

In definitiva, a parere della Cassazione, il requisito della particolare condizione soggettiva della persona offesa non è richiesto al fine della configurazione del reato che si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato ed alla condizione di mercato a lui favorevole.

Altri insights correlati:

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022, ha stabilito che il dirigente che invia ai vertici aziendali una mail astiosa tiene un comportamento idoneo a turbare il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.

I fatti di causa

Un dirigente apicale veniva licenziato per giusta causa per aver inviato ai vertici aziendali una e-mail dal seguente tenore “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”.

Il dirigente licenziato conveniva in giudizio l’azienda ex datrice di lavoro (i) eccependo che tali esternazioni erano state provocate da un unico episodio che aveva innescato in lui una forte reazione psicologica e (ii) chiedendo la sua condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, secondo quanto previsto dal CCNL dei Dirigenti Industria, oltre al risarcimento dei danni per demansionamento e mobbing.

Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che il licenziamento, benché privo di giusta causa, fosse “giustificato” in base al CCNL di categoria, ossia non pretestuoso né arbitrario: di qui il riconoscimento al dirigente della sola indennità sostitutiva del preavviso, con rigetto delle altre domande.

Anche la Corte di Appello si conformava alla decisione del primo giudice, evidenziando che “l‘esternazione alla datrice di lavoro di quanto si legge nella contestata missiva telematica (…), pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza di fonte pattizia collettiva, con conseguente non debenza della indennità supplementare”.

Il dirigente provvedeva così a proporre ricorso in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte investita della causa ha, innanzitutto, osservato che, per giurisprudenza costante, “ai fini della giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso, poiché intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro. Viene così ad assumere rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso. E nel caso di specie, il comportamento del dirigente viene ritenuto idoneo, in applicazione dei canoni generali di buona fede e correttezza contrattuale, a turbare il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi. 

Secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, il recesso è infatti giustificato dall’esigenza dell’imprenditore di poter fare pieno affidamento sul dirigente per l’esecuzione delle direttive a lui impartite.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Altri insights correlati:

Con ordinanza 4404/2022 del 10 febbraio, la Cassazione torna a esprimersi circa i profili di legittimità del licenziamento (per giusta causa) intimato al lavoratore sul presupposto del grave inadempimento legato al rifiuto di assoggettarsi al trasferimento ad altra sede. Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha stabilito che, anche in ipotesi di trasferimento che violi l’articolo 2103 del codice civile, il lavoratore non è legittimato a non prestare la propria prestazione lavorativa quando il rifiuto violi il principio di buona fede.

L’ordinanza in commento trae origine da una complessa vicenda giudiziale instauratasi a seguito del licenziamento per giusta causa intimato da una nota compagnia telefonica a un suo dipendente che, a seguito di trasferimento motivato dalla soppressione dell’unità organizzativa di appartenenza, si era rifiutato di recarsi presso la nuova sede di lavoro.

Nel primo grado di giudizio, il Tribunale di Potenza aveva accolto le domande proposte dal lavoratore volte a impugnare il provvedimento datoriale di trasferimento nonché il successivo licenziamento, intimatogli per il rifiuto di raggiungere la nuova sede di lavoro.

Con sentenza 566 del 2011 la Corte d’appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva invece ritenuto illegittimo il trasferimento e il conseguente licenziamento, con ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente, sul presupposto che il datore di lavoro non si sarebbe comportato secondo buona fede e correttezza nella gestione delle conseguenze che erano derivate dalla soppressione della unità organizzativa di appartenenza, con conseguente legittimità del rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.

Il Tribunale di Asti, con ordinanza del 5 gennaio 2022, ha statuito che il periodo di quarantena (ex art. 26, co.1., D.L. 18/2020 ratione temporis applicabile) o di isolamento fiduciario non rileva ai fini del calcolo del periodo di comporto, non solo nei confronti dei soggetti che hanno avuto un contatto stretto con casi di contagio confermati, ma anche nei riguardi dei soggetti risultati positivi al Covid-19. Ciò in quanto impossibilitati per legge a rendere la prestazione lavorativa a prescindere dalla presenza o meno di sintomi legati alla patologia.

I fatti di causa

Nel caso di specie, la lavoratrice, a seguito di contatto con una propria collega risultata positiva al Covid-19, veniva posta dapprima in quarantena e, successivamente, a seguito di esito positivo del tampone effettuato, in isolamento fiduciario. Il datore di lavoro procedeva al suo licenziamento per superamento del periodo di comporto ai sensi del CCNL di settore.

La lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, deducendo che:

  • dai giorni di malattia maturati nell’anno solare andavano dedotti quelli compresi tra il 25 novembre 2020 ed il 4 dicembre 2020, dovendosi tale periodo essere considerato come infortunio sul lavoro, per aver contratto il Covid-19 nel luogo di lavoro da una collega; e, in secondo luogo
  • lo stesso era qualificabile come “quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva” ex art. 26, comma 1, del D.L. 18/2020 che ne prevedeva l’esclusione dal periodo di comporto.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla lavoratrice, il datore di lavoro sosteneva che la tutela prevista dall’art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020 si riferisse soltanto ai periodi di quarantena con sorveglianza attiva o di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva disposta dall’autorità e non anche alle ipotesi in cui il lavoratore avesse contratto l’infezione da Covid-19.

La decisione del Tribunale di Asti

Secondo il Giudice assegnatario della causa, nel periodo di comporto non avrebbero dovuto essere computate le giornate di assenza dovute a quarantena o isolamento fiduciario previsti dal legislatore per contrastare la diffusione del virus.

Il Giudice – nel richiamare l’art. 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020 così come modificato dai successivi interventi legislativi che ne hanno esteso la portata temporale – ha sottolineato come tale disposizione sia stata introdotta con il fine di tutelare quei lavoratori costretti a rimanere assenti dal lavoro poiché sottoposti alle misure di quarantena e di isolamento fiduciario equiparando detta assenza alla malattia ed escludendone la computabilità ai fini del periodo di comporto.

Alla luce di quanto sopra, secondo il Tribunale, nel caso di specie, non avrebbero dovuto essere computati, ai fini del superamento del periodo di comporto, sia i giorni di assenza disposti per quarantena che quelli disposti per isolamento dovuto all’accertamento della positività della lavoratrice al virus.

Si legge, infatti, nella sentenza che “la ratio della norma è quella di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’assenza dal lavoro che sia riconducibile causalmente alle misure di prevenzione e di contenimento previste dal legislatore e assunte con provvedimento dalle autorità al fine di limitare la diffusione del virus Covid-19, in tutte le ipotesi di possibile o acclarato contagio dal virus e a prescindere dallo stato di malattia, che – come ormai noto – può coesistere o meno con il contagio (caso dei positivi asintomatici)” Si continua poi a leggere nella sentenza che ”anche in caso di contagio con malattia, ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre malattie è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione lavorativa e per il datore di lavoro di riceverla per i tempi normativamente e amministrativamente previsti, tempi che – ancora una volta – prescindono dall’evoluzione della malattia ma dipendono dalla mera positività o meno al virus”.

Su tali considerazioni il Tribunale ha accolto il ricorso della lavoratrice, annullando il licenziamento e disponendo (i) la sua reintegrazione nel posto di lavoro nonché (ii) il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione come per legge e oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

Altri insight correlati:

Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2629 del 10 novembre 2021, ritiene applicabile ai dirigenti il divieto di licenziamento introdotto dalla normativa emergenziale.

I fatti di causa

Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un dirigente ha chiesto al Tribunale di Milano, tra le altre, di accertare e dichiarare la nullità del licenziamento intimatogli per violazione della normativa emergenziale, con conseguente sua reintegra nel posto di lavoro e risarcimento del danno in suo favore pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra e, comunque, in misura non inferiore a 5 mensilità, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione a saldo e versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

La società ex datrice di lavoro del dirigente, costituendosi ritualmente in giudizio, ha chiesto il rigetto delle domane dallo stesso presentate.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale, nell’accogliere il ricorso del dirigente, ha evidenziato che dalla lettera di licenziamento prodotta emergeva che il dirigente fosse stato licenziato per un contenimento dei costi per una più utile gestione dell’impresa, legato all’emergenza sanitaria da COVID-19. Nella lettera di licenziamento agli atti si legge che era stata individuata la sua figura “posto che, nel giro di dodici mesi, (…) al compimento del 67esimo anno di età, raggiungerà (ndr avrebbe raggiunto) l’età anagrafica fissata per legge per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, percependo i relativi emolumenti e l’indennità sostitutiva del preavviso”.

Secondo il Tribunale, dalla lettura della lettera di licenziamento appare evidente che non si tratta di un recesso ad nutum ma di un licenziamento per motivi economici che presenta diversi profili di invalidità.

Per quel che ci interessa, il Tribunale osserva che il divieto di licenziamento durante il periodo emergenziale si applica anche ai dirigenti. L’interpretazione per cui detto divieto non troverebbe applicazione nei loro confronti non può trovare ragionevole riscontro in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 14 del D.L. 104/2021.

Il richiamo all’art. 3 della Legge 604/1966 per individuare la tipologia di licenziamento investita del blocco, ossia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “è diretto soltanto ad individuare sulla base della motivazione della intimazione di recesso la tipologia di licenziamento investito dal divieto, ossia il licenziamento per motivo oggettivo”. E a nulla rileva la circostanza che la disciplina dei licenziamenti trovi applicazione solo per quadri, impiegati e operai, essendo stato l’intento del legislatore vietare tutti i licenziamenti “economici”. Tant’è che il richiamo effettuato dall’art. 4 della Legge 104/2020 è solo all’art. 3 e non all’intera legga 604/1966.

A ciò aggiungasi che i dirigenti sono pacificamente soggetti alla disciplina dei licenziamenti collettivi. Orbene, secondo il Tribunale, non può che essere illogica l’esclusione dei dirigenti dal campo di applicazione del blocco dei licenziamenti nel quale, invece, risulta incluso il loro licenziamento collettivo.

Peraltro, tale conclusione appare supportata dall’applicazione anche in favore di dirigenti del regime sanzionatorio della tutela reale in caso di nullità del licenziamento perché intimato in violazione di un divieto espresso da una norma imperativa.

Oltretutto, secondo il Tribunale, non si può trascurare il principio secondo cui il licenziamento di un dirigente deve essere supportato da un giustificato motivo in forza del principio di cui all’art. 5 della Legge 604/1966. “Difatti la giustificatezza oggettiva, di fonte contrattale che integra la giustificazione oggettiva dei licenziamenti dei dirigenti, è in rapporto di continenza rispetto al meno ampio giustificato motivo oggettivo”.

Inoltre, l’esclusione dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti sarebbe incoerente con una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in relazione al principio di uguaglianza anche sotto il profilo della ragionevolezza. Sul punto il Tribunale richiama la Cassazione secondo la quale per i dirigenti si possono ammettere discipline difformi “purché si tratti di situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale, con riguardo ad altri apprezzabili interessi e comunque non vengano superati i limiti della ragionevolezza”.

◊◊◊◊

Questa pronuncia si insinua in quel dibattito giurisprudenziale all’interno del quale il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha dichiarato dapprima illegittimo il licenziamento individuale per motivi economici intimato ad un dirigente durante il periodo di vigenza del blocco dei licenziamenti e poi, con decisione del successivo 19 aprile, legittima tale tipologia di licenziamento.

Altri insight correlati: