La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 20560 pubblicata il 19 luglio 2021, ha confermato che i fatti oggetto di patteggiamento in un giudizio penale devono ritenersi accertati (con effetto di giudicato) in relazione ad eventuali giudizi civili pendenti aventi ad oggetto medesimi accertamenti. La pronuncia della Suprema Corte trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato dal Ministero della Giustizia ad un cancelliere per aver – insieme ad altri colleghi – attestato falsamente la propria presenza al lavoro.
La vicenda processuale ha visto le parti coinvolte dapprima in un processo penale terminato con il patteggiamento della pena e, successivamente, nel processo instaurato dal dipendente avanti il Giudice del lavoro in relazione all’impugnazione del recesso. Nell’ambito del giudizio lavoristico, la Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza resa dal Tribunale di Lodi che aveva in prima istanza accolto l’impugnazione del lavoratore, ha statuito la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore, dando per accertato (in base al patteggiamento) che presso l’ufficio giudiziario operasse un sistema illecito in cui alcuni dipendenti coprivano vicendevolmente i propri ritardi e assenze attraverso l’abusivo utilizzo dei cartellini in dotazione.
La gravità della condotta risultava inoltre incrementata in ragione del ruolo di capo cancelliere ricoperto dal ricorrente. La sentenza resa dalla Corte territoriale veniva impugnata dal dipendente sulla base di plurimi motivi, tra cui l’asserita violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.p.c. in tema di disponibilità e onere della prova, avendo la Corte d’Appello fondato il proprio convincimento relativo alla sussistenza dei fatti addebitati sulla base di quanto emerso in sede penale. Ad avviso del dipendente la sentenza di patteggiamento non avrebbe potuto essere posta a fondamento dell’accertamento del giudice del lavoro sia in quanto successiva al licenziamento, sia perché inidonea a fornire elementi di valutazione in relazione all’effettiva sussistenza del fatto e alla relativa gravità. I motivi di ricorso venivano rigettati dalla Suprema Corte, la quale confermava la legittimità del recesso intimato.
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Il Tribunale di Milano, con una ordinanza del 2 luglio 2021, ha stabilito che integrano la fattispecie di licenziamento collettivo, e quindi soggiacciono al divieto vigente durante la pandemia, i licenziamenti intimati dalla stessa società a 6 dirigenti, nello stesso periodo e sulla base delle medesime ragioni oggettive. Il Tribunale ha ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che per 4 dei 6 licenziamenti era intervenuta la revoca del licenziamento, il ripristino del rapporto di lavoro e la successiva cessazione del medesimo per risoluzione consensuale.
Una società in liquidazione procedeva nel febbraio 2021 al licenziamento di un dirigente per giustificato motivo oggettivo motivato da una asserita riduzione dell’attività lavorativa e del fatturato comportante, di conseguenza, la soppressione del ruolo ricoperto dallo stesso. Il dirigente impugnava il licenziamento in giudizio rilevando che, nell’arco temporale di sei settimane circa e sulla scorta della stessa motivazione oggettiva, la società aveva licenziato altri 5 dirigenti, deducendo così la riconducibilità del proprio nella sfera di quelli collettivi di cui agli artt. 4, 5 e 24 della L. n. 223/1991, vietati dalla normativa emergenziale Covid-19.
La società, costituitasi in giudizio, rilevava che nel periodo contestato si erano verificati 2 licenziamenti e non 6 in quanto 4 dei 6 rapporti di lavoro dirigenziali si erano conclusi con una risoluzione consensuale e a fronte di un incentivo economico (all’intimazione del licenziamento era seguita la revoca del recesso, un ripristino del rapporto e successiva cessazione per risoluzione consensuale).
Il Tribunale adito ha accolto il ricorso del dirigente ritenendo che la successiva revoca di 4 dei 6 licenziamenti sia del tutto irrilevante e inidonea a impedire l’integrazione della fattispecie di licenziamento collettivo, poiché il tenore letterale dell’art. 24 della L. n. 223/1991 non lascia spazio ad alcuna diversa interpretazione.
In particolare, ai sensi della norma soprarichiamata, il datore di lavoro – che occupi più di 15 dipendenti e intenda effettuare in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni – è tenuto ad osservare le procedure previste dalla medesima legge, restando irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento collettivo, che il numero dei licenziamenti effettivamente attuati sia eventualmente inferiore.
Nel caso di specie, a parere del Tribunale, il requisito numerico richiesto dalla norma era stato raggiunto a monte quando la società aveva adottato i 6 licenziamenti nell’arco temporale di 6 settimane circa manifestando apertamente la propria volontà di porre fine ai rapporti di lavoro.
Accertata, dunque, la sussistenza di un licenziamento collettivo, il Tribunale ha ravvisato la nullità del recesso intimato al dirigente per contrasto con la disciplina del blocco dei licenziamenti collettivi di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e più volte prorogato «il cui carattere imperativo e di ordine pubblico non può mettersi in dubbio”. Il Tribunale ha così condannato la società a reintegrare il dirigente nel posto di lavoro e a corrispondergli una indennità risarcitoria.
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Sebbene il trattamento di cassa integrazione disposto per tutta la forza aziendale (o un intero reparto) prevale sul trattamento di malattia, il periodo di comporto continua a decorrere. Ne consegue che è legittimo il licenziamento del dipendente che abbia superato il comporto in tali circostanze.
È questo quanto affermato dal Tribunale di Foggia con ordinanza del 17 luglio 2021, il quale, chiamato a pronunciarsi sulla validità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha dichiarato che anche se il trattamento di integrazione salariale sostituisce, in caso di malattia, la relativa indennità giornaliera, il datore di lavoro non può autonomamente modificare il titolo dell’assenza del dipendente, con la conseguenza che il periodo di comporto in caso di malattia certificata continua a decorrere sino a quando non sia il dipendente a richiedere il mutamento dell’imputazione della sua assenza dal lavoro.
In particolare, nel caso di specie, un dipendente veniva licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Il dipendente, dunque, agiva in giudizio chiedendo l’accertamento della illegittimità del provvedimento espulsivo, deducendo di essere stato collocato, unitamente a tutti gli altri dipendenti della Società datrice di lavoro, in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria con causale Covid-19, la quale aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui stava fruendo. A sostegno della propria tesi, il dipendente richiama l’art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, nonché la Circolare INPS n. 197/2015, in base al quale “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”. Il Tribunale nel respingere il ricorso promosso – richiamando le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro con sentenza n. 16/2021 – ha sottolineato che con il citato art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, il Legislatore ha inteso esclusivamente prevedere una diversa imputazione della prestazione economica ricevuta dal dipendente in caso di fruizione di un periodo di integrazione salariale, che resta, comunque, di competenza dell’INPS (come nel caso della malattia), non volendo intervenire sulla causale dell’assenza che attiene invece al rapporto privato tra lavoratore e datore di lavoro. Tale diversa imputazione, dunque, nulla ha a che vedere con il comporto e sul titolo della sospensione della prestazione lavorativa. È infatti da escludere, secondo il Tribunale, che il datore di lavoro possa arbitrariamente mutare il titolo dell’assenza del lavoratore quando lo stesso è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di garanzia costituzionale, quale il diritto alla salute.
In quest’ottica, il Tribunale ricorda che il mutamento del titolo dell’assenza è consentito sole se sia il lavoratore a richiederlo, come ad esempio avviene quando il dipendente sostituisce alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. In questo caso, grava poi sul datore di lavoro, accettare o meno tale richiesta e, in caso di rifiuto, dedurre le ragioni organizzative (concrete ed effettive) che hanno portato alla negazione del periodo feriale.
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La Corte di Cassazione ha recentemente confermato che l’utilizzo “abusivo” dei permessi per l’assistenza a familiari disabili di cui all’art. 33, co. 3, della legge n. 104 del 1992, non solo giustifica il licenziamento, ma può essere accertato anche per il tramite di investigatori privati. Nel caso di specie il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per giusta causa comunicato dalla società che, a seguito di un controllo investigativo, aveva accertato che il dipendente, durante le giornate in cui aveva usufruito di giorni di permesso ex Legge 104/1992 per assistere la madre, aveva svolto attività incompatibili con l’assistenza del genitore (andando a fare la spesa e dedicandosi ad attività ricreative). Il licenziamento veniva confermato dai giudici di merito, i quali ritenevano legittima la risoluzione in tronco del rapporto di lavoro dal momento che le violazioni “dolosamente gravi” poste in essere dal dipendente non consentivano la prosecuzione temporanea del rapporto di lavoro essendo lesive del vincolo fiduciario che lega le parti del rapporto medesimo. Inoltre, i giudici hanno riconosciuto la liceità dell’attività investigativa condotta dalla società in relazione alla verifica della sussistenza di atti illeciti compiuti dal dipendente durante la fruizione dei permessi. Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, censurando la decisione di merito principalmente sulla liceità degli accertamenti svolti dalla società, poiché quest’ultima non aveva informato il dipendente in merito ai controlli effettuati e alle modalità di esercizio degli stessi da ritenersi, quindi, lesivi della dignità del lavoratore e della normativa in materia di privacy.
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Con la sentenza 15465 del 3 giugno 2021 la Corte di cassazione, sezione lavoro, è tornata a pronunciarsi sulle peculiarità del licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che svolga altra attività lavorativa durante il congedo per malattia.
In particolare, è stato intimato un licenziamento disciplinare a un dipendente pubblico il quale, a seguito di infortunio, allegando attestazioni mediche relative a una presunta sindrome ansioso depressiva, otteneva un periodo di congedo per malattia durante il quale, tuttavia, veniva filmato da una agenzia investigativa mentre svolgeva attività lavorativa nell’esercizio commerciale della figlia, dimostrando con ciò di non essere affetto da alcun disturbo, né fisico né psichico.
A seguito dell’impugnazione del licenziamento, nel giudizio di primo grado era emerso che la prestazione eseguita presso tale esercizio non era occasionale ma continuativa e caratterizzata da un impegno non meno gravoso di quello richiesto per lo svolgimento delle proprie mansioni da impiegato d’ordine presso l’agenzia del Demanio. In grado di appello, inoltre, era risultato che le attestazioni mediche rilasciate in ordine all’esistenza e alla natura delle patologie che avevano colpito il dipendente successivamente all’infortunio non erano coerenti tra loro. La Corte d’appello, pertanto, riteneva che la sindrome ansioso depressiva non sussisteva e che, se anche latentemente esistente, non era collegabile all’infortunio.
Il Tribunale di primo grado e la Corte territoriale avevano così respinto il ricorso del dipendente avallando la tesi della legittimità del recesso datoriale. Il dipendente è dunque ricorso in Cassazione lamentando, anzitutto, che nel giudizio di merito non fosse emerso il carattere “non occasionale” dell’attività lavorativa contestatagli e che, in secondo luogo, fosse stata violata la previsione del Ccnl di categoria laddove prevedeva la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, fino a un massimo di 10 giorni, in caso di «svolgimento di altre attività durante lo stato di malattia o di infortunio, incompatibili e di pregiudizio per la guarigione».
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