La Corte di Cassazione, con la sentenza 21628 del 22 agosto 2019, ha affermato che prolungare la pausa pranzo oltre il tempo consentito e non aver completato il lavoro è un comportamento più grave dell’assenza dal lavoro.
I fatti
Un postino veniva licenziato per essersi “intrattenuto in due occasioni assieme ad altri ben oltre l’orario di pranzo previsto, lasciando al contempo incustodita la posta assegnatagli ed il mezzo in dotazione. Il tutto senza aver completato il suo lavoro per non avere consegnato due plichi”.
La Corte d’Appello territorialmente competente aveva confermato la decisione di primo grado, affermando tra le altre che “la condotta risulta posta in essere con chiara consapevolezza nella violazione delle regole aziendali desumibile dalle modalità stesse di svolgimento”.
Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva con due motivi in cassazione, a cui resisteva la società con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
Il lavoratore, tra l’altro, eccepiva che l’addebito mosso nei suoi confronti rientrava tra le ipotesi per le quali il CCNL di settore prevedeva una sanzione conservativa. Di conseguenza, il giudice non poteva applicare una sanzione più grave rispetto a quella indicata dalle parti sociali.
Questo motivo è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione alla luce dei principi espressi recentemente dalla stessa (v. Cass. n. 12365 del 2019, conf. Cass. n. 14064, 14247, 14248, 14500 del 2019). In particolare, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento può essere dichiarato illegittimo e, quindi, anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dell’art. 18 novellato, comma 4.
Secondo la Cassazione, nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dal lavoratore, la Corte d’Appello ha ritenuto il comportamento addebitatogli connotato da una maggiore gravità poiché: “è stato posto in essere assieme ad altri dipendenti ed è stato notato dalla collettività al punto che risulta anche presentato un esposto contro il malfunzionamento del servizio dagli abitanti della zona interessata da cui poi erano scaturite le indagini; nel corso del tempo speso a pranzo oltre la pausa concessa il dipendente avrebbe ben potuto completare le ricerche utili a consegnare i plichi rimasti inevasi; il P., solito a intrattenersi presso il ristorante, aveva lasciato in quelle occasioni del tutto incustodito il mezzo aziendale”.
Tali elementi di fatto, a parere della Corte di Cassazione, apprezzati dalla Corte territoriale ed insindacabili in sede di legittimità, “sono certamente idonei ad escludere la riconduzione degli addebiti così come accertati dal giudice di merito alla più generale previsione di abituale negligenza o di abituale inosservanza degli obblighi di servizio punibili con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva”.
Ad avviso della Cassazione, è, altresì, corretto l’assunto della Corte di Appello secondo il quale: “l’assenza ingiustificata dal servizio di un dipendente risulta infatti meno grave della condotta di colui che invece pur risultando regolarmente in servizio sceglie di intrattenersi con altri oltre l’orario consentito, senza aver svolto interamente i compiti affidatigli e connaturati alle proprie mansioni”.
Orbene, secondo la Cassazione, nella fattispecie in esame si è in presenza di un grave inadempimento degli obblighi contrattuali che gravano sul dipendente, il quale denota un elemento intenzionale particolarmente intenso.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, confermata la legittimità del licenziamento intimatogli e liquidato le spese secondo il principio della soccombenza.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 18887 del 15 luglio 2019, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che si è rifiutato di prestare la propria attività lavorativa in un giorno infrasettimanale nel quale cadeva una festività celebrativa di una ricorrenza civile.
I fatti di causa
Nel caso di specie una società, a fronte del diniego di un proprio dipendente a lavorare il 1° maggio, azionava nei suoi confronti un procedimento disciplinare che si concludeva con l’intimazione di un licenziamento per giusta causa.
Il lavoratore ricorreva così all’autorità giudiziaria affinché, tra le altre, dichiarasse illegittimo il licenziamento e condannasse la società, sua ex datrice di lavoro, alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal momento del recesso al giorno della effettiva reintegra.
La Corte d’appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, convertiva il recesso datoriale in “licenziamento per giustificato motivo soggettivo”, condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
I giudici di merito a fondamento della propria decisione precisavano, tra l’altro, che: a) ai sensi delle disposizioni del CCNL di settore era possibile per i dipendenti l’obbligo di prestare attività lavorativa in giorno festivo, entro ovviamente i limiti previsti il cui superamento, nel caso di specie, non risultava documentato; b) era corretta la qualificazione di insubordinazione rilevata in primo grado circa il comportamento del lavoratore ma, non essendosi svolto con modalità violente e non essendovi stato un grave nocumento per la società, il licenziamento avrebbe dovuto essere adottato per giustificato motivo soggettivo e con preavviso.
Avverso la decisione della Corte d’Appello il lavoratore ricorreva in cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, ha osservato che i giudici di merito hanno errato nel disporre l’obbligo di lavorare il 1° maggio sulla base di una mera interpretazione del CCNL di settore, che contiene un generico riferimento al lavoro festivo. Ciò in quanto la Legge 260/1949 costituisce una disciplina sovraordinata.
Secondo la Corte detta legge è completa ed autosufficiente nel riconoscere al lavoratore il diritto di astenersi dal prestare la propria attività in determinate festività celebrative di ricorrenze religiose e civili con esclusione, quindi, di eventuali sue integrazioni analogiche o commistioni con altre discipline.
Sempre secondo la Corte solo i soggetti alle dipendenze di istituti sanitari, pubblici e privati, sono obbligati alle prestazioni durante le ricorrenze, come il 25 maggio ed il 1° maggio, sempreché le esigenze di servizio permettano il riposo. In caso contrario il datore di lavoro non può derogare unilateralmente alla fruizione del riposo, anche se dipende da esigenze produttive.
Peraltro, il diritto del lavoratore di astenersi dall’attività lavorativa durante le festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo ed è pieno con carattere generale.
Tale diritto non può, quindi, essere vanificato dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo individuale o di un accordo stipulato con le OO.SS cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.
Sulla scorta di questi principi la Corte di Cassazione ha concluso per la illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore con tutte le conseguenze di legge.
La Corte di cassazione, con sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019, è tornata ad analizzare la delicata tematica relativa alla lesione del rapporto fiduciario, conseguente all’abuso, da parte del lavoratore, dei permessi previsti dalla legge n. 104/1992.
La vicenda trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente per aver fruito di due giorni di permesso previsti dalla disposizione sopra richiamata, per l’assistenza ad una congiunta disabile, essendo tuttavia emerso dalle indagini investigative disposte dal datore di lavoro che, in costanza dei permessi in questione, l’interessato non aveva abbandonato il proprio domicilio e, pertanto, non poteva essersi recato presso la separata abitazione della propria congiunta per offrire assistenza.
I giudici di merito, sia in primo grado, sia in sede di appello, respingevano l’impugnazione del dipendente, ritenendo soddisfatto l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, seppur non mediante prova diretta, bensì per deduzione in base all’interpretazione combinata della relazione investigativa, confermata in sede testimoniale e alle giustificazioni orali rese dal lavoratore.
Ricorrendo in Cassazione contro la decisione, il lavoratore denunciava – tra gli altri motivi – erronea e falsa applicazione del principio dell’onere della prova della sussistenza della giusta causa di licenziamento, rilevando, in primo luogo, il mancato raggiungimento della piena prova relativa alla condotta contestatagli dal datore di lavoro in quanto dalla relazione investigativa risultava la mancata conoscenza esatta del numero civico corrispondente all’abitazione della persona assistita. Il medesimo, inoltre, lamentava la trascuratezza della Corte territoriale nel non aver opportunamente considerato che un’attività integrativa di investigazione fosse stata svolta in un momento successivo rispetto all’irrogazione del licenziamento. L’erronea valutazione delle risultanze probatorie, originata anche dalla mancata piena prova sul fatto contestato, avrebbe determinato, secondo il ricorrente, una fonte di incertezza sulla effettiva gravità della condotta e di conseguenza sulla proporzionalità della misura adottata. Orbene, i giudici di legittimità, dichiarando inammissibili tutti i motivi del ricorso ritenendo esente da vizi il percorso logico argomentativo dei giudici di merito, hanno confermato la validità del provvedimento espulsivo del lavoratore, in totale accoglimento rispetto a quanto statuito dalla sentenza di merito.
In particolare, precisa la Cassazione, la corte territoriale aveva affrontato, con motivazione logicamente congrua, la questione relativa all’abuso dei permessi di cui alla legge n. 104/1992, osservando che la relazione investigativa prodotta dal datore di lavoro, confermata per testimoni e stridente rispetto a quanto affermato dal lavoratore in sede di audizione disciplinare, era perfettamente idonea a dimostrare con pienezza l’omessa assistenza per cui lo stesso fruiva dei permessi. Appare opportuno, in relazione all’oggetto della disamina de qua, ripercorrere gli orientamenti giurisprudenziali emersi in ordine ai limiti entro i quali il datore di lavoro può lecitamente controllare i lavoratori, anche usufruendo di agenzie investigative private, al fine di assicurare la corretta fruizione dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12174 datata 8 maggio 2019, si è pronunciata sull’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 affermando che “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
I fatti
Il Tribunale di Genova, adito da una lavoratrice licenziata per aver abbandonato il proprio posto di lavoro durante l’orario di lavoro, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ed estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento stesso, condannando la società datrice di lavoro (contumace) al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 4 mensilità, oltre le spese di lite.
La lavoratrice ricorreva in appello avverso la pronuncia di primo grado per vedersi riconoscere la tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 per insussistenza del fatto materiale contestato.
La Corte distrettuale, nel respingere l’eccezione formulata dalla lavoratrice, osservava che la condotta addebitatale non era stata dalla medesima negata nella sua realtà storica piuttosto non poteva ritenersi, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il provvedimento espulsivo.
Pertanto, ad avviso della Corte d’Appello, correttamente il Tribunale aveva riconosciuto la tutela risarcitoria di cui all’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015, quantificata in 4 mensilità.
Avverso la sentenza di secondo grado la lavoratrice ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi.
La normativa applicabile
La fattispecie in esame rientra nell’ambito di disciplina del D.Lgs. 23/2015, emanato in attuazione della L. 183/2014 con cui si delegava, tra le altre, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerente con le attuali esigenze del contesto occupazione e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva”.
Tra i principi ed i criteri direttivi, cui il Governo doveva attenersi nell’esercizio della delega, la L. 183/2014 aveva posto anche “la previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, rispetto al quale la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro doveva essere limitata ai licenziamenti nulli e discriminatori ed a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
In esecuzione di tali principi e criteri è stato emanato il D.Lgs. 23/2015 che ha previsto per i lavoratori, assunti dopo il 7 marzo 2015, (data di entrata in vigore del Decreto) e per specifiche categorie di lavoratori che, benché assunti prima di tale data, sono destinatari dello stesso, la tutela reintegratoria in ipotesi residuali. Ciò senza modificare le nozioni legali di “giusta causa” e “giustificato” di recesso datoriale vigenti.
In particolare, il comma 1 del D.Lgs. 23/2015 dispone che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità (…)”.
Il comma 2 del medesimo articolo prevede poi che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria (…)”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione sostiene che l’articolazione delle tutele di cui al D.Lgs. 23/2015 richiama quella già intrapresa dalla Legge 92/2012 (cd. Legge Fornero), anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione residuale rispetto alla tutela indennitaria.
Sempre ad avviso della Corte di Cassazione, le espressioni utilizzate dal D.Lgs. 23/2015 (“fatto materiale contestato”) non possono che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della L. 300/1970.
Al fatto accaduto ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso. Ciò in quanto il licenziamento necessita di giustificazione ed è illegittimo se non risulta appunto sorretto da un “giustificato motivo” o da una “giusta causa”.
A suffragio di tale assunto, secondo la Corte di Cassazione, vi è la lettura costituzionalmente orientata della norma, dovendosi affermare che “qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da un punto di vista oggettivo, la sua riconducibilità nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità”.
A rafforzare tale conclusione vi è la considerazione che l’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, al pari dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970, fa riferimento alla contestazione e, pertanto, il “fatto materiale contestato” è il fatto non solo materialmente integrato ma anche di rilievo disciplinare.
E la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 si spiega, secondo la Cassazione, con “l’esigenza di dissipare dubbi interpretativi che all’epoca erano ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell’art. 18 novellato”.
La Corte ha così cassato la sentenza di secondo grado, rinviando la causa al giudice di merito perché accertasse se il fatto, pur materialmente accaduto, avesse rilevanza disciplinare.
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Licenziamento illegittimo: l’indennità risarcitoria dopo la decisione della Consulta
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza durante il periodo di preavviso è legittimo ma inefficace, al pari di quanto avviene per il recesso intimato in costanza di malattia o infortunio.
I fatti
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di una lavoratrice di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole, ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Nello specifico la Corte d’Appello aveva ritenuto che il licenziamento si fosse perfezionato alla data di ricevimento della relativa comunicazione, sebbene i suoi effetti fossero stati posticipati al termine del periodo di preavviso.
I giudici di merito avevano, infatti, individuato il momento di inizio dello stato oggettivo della gravidanza in base alla documentazione medica offerta in comunicazione ed alla CTU svolta in primo grado, accertando appunto che lo stesso risalisse ad una data successiva all’intimazione del licenziamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice aveva proposto ricorso in Cassazione, eccependo, tra le altre, che la sopravvenienza nelle more del preavviso dello stato di gravidanza aveva reso operante la tutela di cui al D.lgs. 151/2001. Ciò in quanto il rapporto di lavoro durante il preavviso prosegue a tutti gli effetti con i connessi obblighi e diritti, salvo il consenso del lavoratore all’immediata o anticipata sua risoluzione.
La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione emessa dai giudici di secondo grado, respingendo il ricorso formulato dalla lavoratrice.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha evidenziato, riprendendo un suo consolidato orientamento, che il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore. E ciò indipendentemente dal fatto che l’efficacia – intesa come la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto di lavoro – venga differita ad un momento successivo.
In altri termini la verifica delle condizioni legittimanti l’esercizio del potere di recesso deve essere “compiuta con riferimento al momento in cui detto negozio unilaterale si è perfezionato e non già con riguardo, ove il licenziamento sia stato intimato con preavviso, al successivo momento della scadenza del preavviso stesso”.
Ed è proprio a questo principio che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito allorquando hanno escluso la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Ciò sull’assunto che lo stesso sia stato intimato e si sia perfezionato nel momento in cui la lavoratrice non era in stato di gravidanza.
Sempre a parere della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello ha fatto anche correttamente leva sulla formulazione dell’art. 54, comma 5, del D.lgs. 151/2001 che considera nullo il licenziamento intimato “dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” e non al momento di produzione dei suoi effetti.
Orbene, lo stato di gravidanza insorto durante il periodo di preavviso non inficia la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice antecedentemente. Tuttavia, la Suprema Corte ha ricordato che lo stato di gravidanza costituisce un evento idoneo, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., a determinare la sospensione del periodo di preavviso.
Ma nel caso in esame la lavoratrice ha dedotto soltanto la nullità del licenziamento e non anche l’inefficacia legata alla sospensione del preavviso, determinandone così il rigetto.