Deve considerarsi ritorsivo il licenziamento motivato dall’esternalizzazione delle attività assegnate al dipendente se, in realtà, la posizione lavorativa non viene soppressa e il recesso è disposto a seguito del rifiuto del lavoratore a stipulare con la Società un accordo novativo avente ad oggetto la modifica del livello di inquadramento e la riduzione della retribuzione.
A tale conclusione è giunta la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 20 maggio 2021 adottata all’esito del giudizio promosso da una lavoratrice avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole dalla società in data 30 novembre 2016. Nel caso di specie, la Società aveva deciso di sopprimere la posizione di impiegata amministrativa ricoperta dalla lavoratrice a seguito dell’esternalizzazione delle attività amministrative e dell’adozione di sistemi automatizzati di gestione.
A ben vedere la Corte di Appello di Firenze, nel giudizio di reclamo ex. art. 58 L. 92/2012, aveva confermato la statuizione del giudice di primo grado il quale, nel corso della fase sommaria, aveva accertato l’insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, tenuto conto che le mansioni espletate dalla lavoratrice erano state, sin dal giorno successivo al licenziamento, assegnate a una collega che, al di là del formale inquadramento, era una “ordinaria impiegata amministrativa pienamente inserita nell’unità produttiva” della Società.
Inoltre, nel corso dell’attività istruttoria era emerso che la decisione di procedere al licenziamento era intervenuta successivamente al rifiuto della lavoratrice di accettare – nell’ambito di un accordo novativo proposto dalla Società – una modifica del livello di inquadramento e la conseguente riduzione della retribuzione relativa al solo superminimo.
Secondo gli ermellini, quindi, la valutazione circa la sussistenza di un motivo ritorsivo del licenziamento era stata assunta dalla Corte territoriale all’esito di un ragionamento congruo e idoneo a valorizzare una correlazione tra il rifiuto della proposta novativa e il licenziamento, osservando che la presunta esternalizzazione non aveva fatto venir meno la necessità della posizione lavorativa ricoperta dalla dipendente, atteso che le mansioni della lavoratrice, a partire dal giorno successivo al recesso, erano state assegnate ad altra impiegata.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12932/2021, ha ribadito che la rinuncia da parte del lavoratore al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva, formalizzata mediante un atto transattivo intervenuto successivamente all’intimazione del licenziamento, non produce effetti sull’obbligazione contributiva previdenziale che deve essere versata all’INPS.
Nel caso di specie, un istituto di credito, dopo aver intimato il licenziamento ad un gruppo di circa 90 dirigenti, aveva sottoscritto con gli stessi un accordo transattivo, in cui veniva pattuito il mutamento del titolo del recesso da licenziamento a risoluzione consensuale, con contestuale rinuncia da parte dei dirigenti stessi al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva. Nonostante l’accordo raggiunto tra le parti, l’ente previdenziale agiva in giudizio nei confronti della società rivendicando il versamento dei contributi previdenziali sull’indennità sostitutiva del preavviso.
La Corte d’Appello territorialmente competente, riformando la decisione di primo grado, ha accolto le rivendicazioni dell’INPS osservando che i rapporti di lavoro si fossero risolti con effetto dal ricevimento della lettera di licenziamento in cui, in luogo della prestazione in servizio del periodo di preavviso, veniva riconosciuto ai dirigenti il pagamento della indennità sostitutiva. Quest’ultima costituiva, pertanto, elemento retributivo già entrato a far parte del patrimonio dei dirigenti, e come tale soggetto ad obbligazione contributiva.
Sul punto la Corte d’Appello riteneva irrilevante che tra le parti fosse intervenuto un accordo transattivo con cui ciascun dirigente, qualche settimana dopo l’intimazione del licenziamento, aveva rinunciato al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva.
Avverso la sentenza di merito, la società ricorreva in cassazione.
La Corte di Cassazione adita ha ribadito, in via preliminare, che l’obbligazione contributiva:
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, l’assoggettamento dell’indennità sostitutiva del preavviso alla contribuzione previdenziale consegue alla sua natura retributiva. Pertanto “è nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia che sorge il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva su tale indennità: se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinuncia al diritto all’indennità, tale rinuncia non potrà avere alcun effetto sull’obbligazione pubblicistica, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente perché il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare (INPS)”.
A giudizio della Corte di Cassazione, una volta intimato il licenziamento, l’indennità sostitutiva del preavviso – rientrando nel novero di “tutto ciò che ha diritto a ricevere” il lavoratore – “viene attratta, per il suo intrinseco valore retributivo, nel rapporto assicurativo, autonomo e distinto, completamente insensibile, per quanto detto, all’effettiva erogazione e, dunque, all’argomento difensivo di essere o meno entrata nel patrimonio del lavoratore”.
◊◊◊◊
In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, l’accordo transattivo con cui datore di lavoro e lavoratore mutano il titolo del recesso da licenziamento a risoluzione consensuale, rinunciando nel contempo al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva, si colloca in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, l’obbligazione contributiva si è già prodotta nel rapporto assicurativo ed il datore di lavoro rimane gravato del versamento all’INPS dei contributi sull’indennità sostitutiva del preavviso.
Altri insight correlati:
Nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica da parte del Giudice del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso, dal quale discende la possibilità di reintegra del dipendente, deve riguardare tanto l’esistenza delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative indicate dall’azienda, quanto la possibilità di ricollocare altrove il lavoratore all’interno della struttura aziendale.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 4 maggio 2021, ha raggiunto questa conclusione sul presupposto che, anche se il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, compete allo stesso Giudice il controllo in ordine alla effettività e non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.
La vicenda sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale è relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente di un’azienda specializzata in servizi fisioterapeutici, motivato da ragioni economiche stante la contrazione del fatturato registrato dalla società datrice di lavoro nei tre anni precedenti. La Società, dunque, riportava nella lettera di licenziamento, la necessità di attuare ”una riduzione dei costi mediante un riassetto organizzativo aziendale per il quale le mansioni espletate [dalla lavoratrice], saranno svolte personalmente dall’amministratore e assorbite dai nuovi sistemi informativi e telematici”. La Società, pertanto, non esistendo, come dalla stessa dichiarato, la possibilità di adibire la dipendente a posizioni equivalenti, la licenziava.
La dipendente impugnava il recesso facendo leva sul fatto che alla base del licenziamento non vi era stato un effettivo riassetto aziendale nonché che l’azienda non aveva compiutamente assolto al c.d. obbligo di repêchage. Chiedeva, dunque, l’accertamento della mancata sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento ex art. 18, commi 4 e 7, dello Statuto dei Lavoratori punito con la reintegrazione nel posto di lavoro oltre 12 mensilità a titolo di risarcimento del danno.
Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, richiamando, in primo luogo, l’orientamento giurisprudenziale per cui il motivo oggettivo di recesso può identificarsi anche soltanto in una diversa distribuzione delle mansioni tra i dipendenti in servizio per la gestione più economica ed efficiente dell’azienda, con la conseguenza che la posizione del dipendente che svolgeva la mansione in modo esclusivo risulti in esubero (Cass. n. 19185/2016 e n. Cass. n. 29238/2017). Al riguardo, prosegue il Tribunale, non basta che i compiti un tempo svolti dal dipendente licenziato siano assegnati ai colleghi ma è necessario che tale riorganizzazione sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un mero effetto.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 16 marzo 2021, n. 7360, ha stabilito che il datore di lavoro – laddove il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo si fosse reso disponibile al trasferimento solo in determinate zone – deve provare, per non incorrere nella violazione dell’obbligo del c.d. repêchage, unicamente l’impossibilità di ricollocarlo nelle sedi aziendali site in dette zone.
Una lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole a seguito della chiusura dell’unità locale ove era impiegata come store manager.
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava il ricorso presentato dalla lavoratrice deducendo la mancata violazione dell’obbligo di repêchage, a fronte della disponibilità della stessa ad essere trasferita soltanto in una delle sedi della società datrice di lavoro, site in Campania o nel basso Lazio.
Avverso la decisione dei giudici di merito ricorreva in cassazione la lavoratrice.
La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte distrettuale e, riprendendo alcuni propri consolidati orientamenti, ha affermato preliminarmente che: “in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, non essendo configurabile sotto il profilo processuale, una divaricazione tra i suddetti oneri” (cfr. sentenza n. 5592/2016; sentenza n. 12101/2016 e sentenza n. 160/2017).
E per la Corte di Cassazione, tale onere risulta assolto dal datore allorquando riesce a dimostrare di non esserci alcuna possibilità di ricollocare il lavoratore licenziato in una sede ricompresa all’interno del territorio in cui lo stesso si è detto disposto a trasferirsi. Infatti, seppur non incomba sul lavoratore alcun onere di allegazione, una volta che lo stesso circoscrive – nella domanda giudiziale – l’ambito spaziale di interesse, consente al datore di non addure alcunché circa il possibile ricollocamento in sedi site in territori diversi.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ritenendo assolto da parte della società resistente l’onere di dimostrare di non avere alcun posto disponibile in Campania e nel basso Lazio.
Altri insights correlati:
Sei anni fa, il 7 marzo 2015, entravano in vigore le tutele crescenti del Jobs Act, innovative tutele in caso di licenziamento illegittimo per i nuovi assunti a tempo indeterminato: un intervento ai tempi considerato rivoluzionario dei principi regolanti le tutele sino ad allora in vigore, che si prefiggeva di disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo in modo esclusivamente automatico e sulla base di una formula matematica, dando forma all’ambizioso progetto di superare le incertezze di un sistema fino ad allora imperniato sulla discrezionalità del giudicante.
In base alle nuove regole, veniva d’un tratto ridefinito, per le aziende con più di quindici dipendenti, l’ambito di operatività del dibattuto diritto alla reintegrazione che, veniva relegata ad ipotesi residuale applicabile solo ai casi più gravi (insussistenza del fatto contestato al lavoratore, ovvero licenziamento discriminatorio o in altro modo radicalmente nullo) cedendo così il passo ad una tutela risarcitoria, da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro mensilità, per i canoni sino ad allora vigenti piuttosto contenuta soprattutto nei primi anni di servizio.
Almeno nelle intenzioni, la riforma avrebbe dovuto favorire nuova occupazione e ridurre gli ostacoli normativi all’attrazione degli investimenti in Italia.
A distanza di pochi anni, tuttavia, può dirsi con una certa tranquillità che le tutele crescenti originariamente introdotte hanno avuto vita molto breve e altrettanto travagliata.
Da un lato infatti l’economia reale, vero motore di ogni forma di sviluppo e crescita dell’occupazione, non ha avuto il trend auspicato dovendo affrontare da ultimo lo scenario pandemico, inimmaginabile nel 2015, rendendo impossibile riscontrare nel tempo l’incidenza espansiva delle tutele crescenti da un punto di vista occupazionale. D’altra parte, non si sono fatti attendere interventi normativi da parte dei successivi governi e in rapida successione della Corte Costituzionale, che hanno stravolto i connotati della riforma lasciando ben poco di quanto originariamente previsto.
Il primo colpo al sistema delle tutele crescenti veniva inferto dal Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) che, senza modificare la formula per il calcolo dell’indennizzo spettante sulla base di due mensilità per ogni anno di servizio, aumentava l’intervallo dell’indennizzo, che diventava da sei a trentasei mensilità.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.