Con sentenza n. 2618 del 4 febbraio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore che, fruendo del congedo parentale, aveva intrapreso un’attività lavorativa parallela, così configurando un abuso di tale diritto.
Nel caso in esame, il lavoratore, durante il periodo di congedo parentale, aveva intrapreso un’attività di compravendita di autovetture, senza darne preventiva comunicazione al datore di lavoro. L’attività svolta, era emersa all’esito di una verifica effettuata da un’agenzia investigativa incaricata dalla Società datrice. A seguito delle indagini da parte dell’agenzia investigativa è, infatti, emerso che lo svolgimento dell’attività lavorativa parallela non fosse né saltuaria, né episodica, ponendosi così in contrasto con le finalità del congedo parentale retribuito, le quali, così come affermato dalla Suprema Corte «postulano che durante la sua fruizione, i tempi e le energie del padre lavoratore siano dedicati, anche attraverso la propria presenza, al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore».
Tale condotta, configurandosi come un abuso del diritto al congedo parentale, ha, dunque, giustificato la sanzione espulsiva nei confronti del lavoratore. La Corte di Cassazione ha, infatti, statuito quanto segue: «ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia».
Pertanto, gli Ermellini hanno ribadito che il congedo parentale, pur essendo un diritto del lavoratore-genitore, non possa essere utilizzato per perseguire finalità estranee a quelle per le quali è stato istituito.
In definitiva, l’abuso del congedo legittima la sanzione espulsiva, venendo in rilievo un comportamento che, oltre che costituire una grave violazione del dovere di fedeltà gravante sul lavoratore, è connotato da evidente un disvalore sociale alla luce dei costi sociali ed economici connessi.
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Il 20 febbraio 2025 Vittorio De Luca ha partecipato alla quinta edizione del Welfare & HR Summit de Il Sole 24 Ore, ha analizzato i principali aspetti giuslavoristici legati alla disciplina degli appalti e le novità introdotte, da ultimo, dal “Decreto Correttivo”.
Qui il link per vedere un estratto del suo intervento.
L’appuntamento per il 5° Welfare & HR Summit de Il Sole 24 Ore è per giovedì 20 febbraio dalle ore 15.00. L’evento vedrà la partecipazione di Vittorio De Luca tra gli esperti convocati per fare il punto sui nuovi paradigmi per le imprese, tra nuove norme e cambiamenti sociali.
Vittorio De Luca analizzerà i principali aspetti giuslavoristici legati alla disciplina degli appalti e le novità introdotte, da ultimo, dal “Decreto Correttivo” che, in linea con i più recenti interventi normativi, amministrativi e giurisprudenziali, mira a rendere il sistema degli appalti più trasparente, con il fine ultimo di tutelare i lavoratori impiegati nell’ambito delle esternalizzazioni. Un approccio che avrà un notevole impatto anche nei confronti delle imprese che si avvalgono di terzi fornitori, obbligate ad adeguarsi velocemente.
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L’art. 33 della Legge 104/1992 disciplina i permessi retribuiti “per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
Tali permessi consistono nella possibilità, per il lavoratore dipendente, pubblico o privato, a tempo pieno o parziale, di assentarsi dal lavoro mantenendo il diritto alla retribuzione e ferma la copertura contributiva figurativa ai fini pensionistici, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno.
Per “disabilità in situazione di gravità”, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della Legge 104/1992 si intende una compromissione, singola o plurima, che abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione.
La normativa ha lo scopo principale di garantire che tali soggetti possano ricevere l’assistenza necessaria da parte dei loro familiari o affini, anche se questi ultimi sono lavoratori attivi.
Non si tratta quindi di strumenti finalizzati al recupero psicofisico del lavoratore, bensì di un diritto socio-assistenziale volto a tutelare la salute e il benessere del soggetto disabile.
Per quanto riguarda la natura dei permessi ex Legge 104/1992, come precisato dalla norma si tratta di permessi “retribuiti”. Durante i giorni di loro fruizione il dipendente matura quindi la tredicesima e l’eventuale quattordicesima, ove prevista. Secondo la giurisprudenza, inoltre, nel concetto di retribuzione vanno compresi anche eventuali compensi incentivanti correlati alla prestazione lavorativa.
I giorni di permesso previsti dalla Legge 104/1992, inoltre, concorrono al calcolo delle ferie maturate dal lavoratore, in quanto l’istituto delle ferie mira al recupero delle energie psicofisiche, e tale esigenza sussiste anche nel caso in cui il lavoratore sia impegnato in attività assistenziali nei confronti di un familiare disabile.
La scelta dei giorni in cui fruire del permesso spetta al lavoratore e il datore di lavoro non può sindacare tale scelta. La finalità socio-assistenziale del diritto prevale infatti sulle esigenze organizzative del datore di lavoro, garantendo così una piena tutela dei diritti del lavoratore e del familiare assistito.
Le agevolazioni in esame sono riservate a determinati soggetti e subordinate alla presenza di specifici requisiti. In particolare, possono usufruire dei permessi previsti dal comma 3° dell’art. 33 Legge n. 104/1992:
a. i lavoratori disabili in situazione di gravità, che possono avvalersi dei permessi in prima persona;
b. i familiari che assistono un disabile in situazione di gravità e, nello specifico:
– il coniuge, i genitori biologici o adottivi del disabile;
– i parenti o affini entro il secondo grado, con possibilità di estensione al terzo grado in particolari condizioni (genitori o coniuge del disabile ultrasessantacinquenni, affetti da patologie invalidanti, deceduti o assenti).
La Legge n. 76/2016, c.d. Legge Cirinnà, ha definitivamente orevisto una sostanziale equiparazione del convivente di fatto e della parte dell’unione civile alle figure tradizionali di coniuge o del parente del disabile.
Sul punto, l’INPS con le Circolari n. 38/2017 e n. 36/2022 ha precisato che la legge n. 76/2016 ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto stabilendo al comma 20 dell’articolo 1, che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 213 del 5 luglio 2016, inoltre, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 33, comma 3, della legge n. 104/1992 nella parte in cui non includeva il convivente tra i soggetti legittimati a fruire dei medesimi permessi.
Per quanto riguarda la fruizione dei permessi, l’art. 33 della Legge 104/1992 stabilisce differenti modalità di utilizzo, distinguendo a seconda del soggetto beneficiante.
I lavoratori disabili in situazione di gravità possono beneficiare in alternativa di:
– permessi orari retribuiti. Tali permessi sono rapportati all’orario giornaliero di lavoro (due ore al giorno, in caso di orario lavorativo pari o superiore a sei ore; un’ora se l’orario lavorativo è inferiore a sei ore giornaliere);
– tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore.
I genitori, anche adottivi o affidatari, di figli disabili in situazione di gravità minori di tre anni possono beneficiare in alternativa:
– di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore;
– del prolungamento del congedo parentale;
– permessi orari retribuiti. Tali permessi sono rapportati all’orario giornaliero di lavoro (due ore al giorno, in caso di orario lavorativo pari o superiore a sei ore; un’ora se l’orario lavorativo è inferiore a sei ore giornaliere).
I genitori biologici di figli disabili in situazione di gravità di età compresa tra i tre e i dodici anni di vita e i genitori adottivi o affidatari di figli disabili in situazione di gravità, che abbiano compiuto i tre anni di età ed entro i 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore, possono beneficiare in alternativa:
– di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore;
– del prolungamento del congedo parentale.
In caso di figli disabili in situazione di gravità oltre i 12 anni di età, i genitori (biologici, adottivi o anche gli affidatari) possono beneficiare di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore.
Il coniuge, la parte dell’unione civile, il convivente di fatto, i parenti e gli affini della persona disabile in situazione di gravità possono beneficiare di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore.
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La Corte di Cassazione, con ordinanza del 20 gennaio 2025, n. 1364, ha chiarito importanti aspetti relativi all’obbligo di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, la Cassazione – escludendo la reintegra del dipendente – ha stabilito che l’obbligo di repêchage non impone al datore di lavoro di ricollocare il lavoratore in mansioni inferiori dell’organico qualora non vi siano mansioni compatibili con il profilo professionale del dipendente licenziato.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un lavoratore, il quale ricopriva le mansioni di venditore per l’export, licenziato a seguito della soppressione del proprio incarico. Contestando il licenziamento, il lavoratore ha sostenuto che l’azienda non avesse adeguatamente esplorato tutte le possibilità di ricollocamento al suo interno, richiedendo, dunque, la reintegra.
Nel corso del procedimento, la Corte di merito aveva ritenuto illegittimo il licenziamento sotto il profilo procedurale, riconoscendo, inoltre, che l’obbligo di repêchage non fosse stato rispettato. Tuttavia, la Suprema Corte, in riforma alla pronuncia di primo grado, ha stabilito che la ricerca di mansioni alternative non debba estendersi a posizioni che non siano strettamente compatibili con la professionalità del lavoratore.
Inoltre, la Corte di Cassazione ha escluso che l’assunzione di un altro dipendente, avvenuta poco prima del licenziamento del ricorrente, potesse influire sulla validità del recesso. Nel caso di specie, infatti, i due profili professionali sono stati dichiarati non comparabili poiché il nuovo assunto ricopriva il ruolo di quadro, con conseguente trattamento economico superiore, mentre il lavoratore licenziato rivestiva il ruolo di impiegato di primo livello. In aggiunta, il ricorrente non era riuscito ad ottenere un visto permanente per il Paese estero in cui avrebbe dovuto svolgere l’attività lavorativa, circostanza che ha portato alla soppressione dell’incarico svolto. Tali considerazioni hanno portato la Suprema Corte a concludere che non vi fosse l’obbligo di reintegrare il lavoratore, in quanto non era presente una posizione che potesse essere occupata, in considerazione del differente inquadramento e delle differenti professionalità dei due dipendenti.
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