In assenza della prova dell’estromissione per volontà datoriale, la domanda di inefficacia del licenziamento orale deve essere rigettata
Il Tribunale di Catania, con la recente sentenza n. 2385 del 5 giugno 2025, ha ribadito che la domanda di impugnativa del licenziamento, con la quale si censura l’inefficacia dell’atto espulsivo per essere stato intimato oralmente, pone a carico del lavoratore, in ossequio ai principi generali di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare il fatto costitutivo della pretesa, vale a dire che la risoluzione del rapporto di lavoro sia ascrivibile alla volontà datoriale diretta all’estromissione del lavoratore.
La pronuncia si inserisce in un solco giurisprudenziale ormai consolidato, ribadendo con chiarezza i principi che governano la materia e offrendo un’applicazione rigorosa delle regole probatorie.
L’onere della prova relativo alla volontà datoriale di estromettere il dipendente dall’azienda
Come noto, il licenziamento individuale è un atto unilaterale recettizio a forma vincolata, che richiede, a pena di inefficacia, la comunicazione per iscritto.
Tale principio fondamentale è sancito in modo inequivocabile dall’articolo 2 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale stabilisce che “il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro“.
La forma scritta è richiesta ad substantiam, ovverosia come requisito essenziale per la validità stessa dell’atto di recesso. La sua mancanza determina la conseguenza più grave prevista dalla legge: l’inefficacia del licenziamento, come pure esplicitato dal terzo comma del medesimo articolo.
Ciò significa che un licenziamento comunicato solo verbalmente è considerato tamquam non esset, ossia come mai avvenuto, e pertanto è del tutto inidoneo a produrre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.
La ratio sottesa a tale norma imperativa risiede nella necessità di garantire la certezza dei rapporti giuridici, di consentire al lavoratore una piena e consapevole difesa attraverso l’impugnazione e di assicurare che la decisione espulsiva da parte del datore di lavoro sia cristallizzata.
Se il dato normativo sostanziale è chiaro, la sua applicazione pratica solleva una fondamentale questione processuale nel momento in cui il lavoratore si rivolge al giudice lamentando di essere stato allontanato dal posto di lavoro a seguito di una mera comunicazione verbale.
In questo scenario, la risoluzione della controversia si sposta sul piano probatorio, governato dalla regola generale dell’articolo 2697 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

La giurisprudenza di legittimità, superando precedenti incertezze, ha consolidato un orientamento univoco e rigoroso: l’onere di dimostrare l’avvenuto licenziamento orale grava interamente sul lavoratore che lo impugna. Il fatto costitutivo della sua pretesa non è la mera interruzione della prestazione, bensì l’atto unilaterale con cui il datore di lavoro ha manifestato la volontà di estinguere il rapporto.
Ed infatti, la mera cessazione dell’attività lavorativa è stata definita dalla Suprema Corte come un “fatto neutro a significato polivalente”, potendo essa derivare da un licenziamento, da dimissioni o da una risoluzione consensuale.
Il punto di riferimento di tale indirizzo giurisprudenziale è la sentenza della Corte di Cassazione n. 3822 del 8 febbraio 2019, che ha enunciato un principio di diritto divenuto la guida per tutta la giurisprudenza successiva: “Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova“.
Tale orientamento è stato costantemente ribadito da pronunce successive, tra cui le sentenze della Suprema Corte n. 13195/2019, n. 1336/2024 e Cass. n. 15025/2025, le quali hanno confermato che il lavoratore deve provare l’atto di “estromissione” dal contesto aziendale. Se all’esito dell’istruttoria permane un’incertezza insuperabile, la domanda del lavoratore deve essere rigettata, anche qualora il datore di lavoro non abbia provato fatti contrari (come, ad esempio, dimissioni o risoluzione consensuale).
In passato, alcune sentenze sembravano alleggerire l’onere probatorio posto a carico del lavoratore. Ad esempio, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (sentenza n. 1258/2017), aveva affermato che a fronte dell’allegazione del licenziamento orale, la controdeduzione datoriale di dimissioni del lavoratore assumeva “la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, cod. civ.“. Tuttavia, l’orientamento inaugurato dalla Cassazione nel 2019 ha chiarito definitivamente la questione, precisando che la regola dell’onere della prova a carico del lavoratore è prioritaria e che l’incertezza probatoria si risolve a suo discapito.
Sebbene rigoroso, l’onere probatorio a carico del lavoratore non può definirsi “diabolico”. La giurisprudenza di merito offre, infatti, numerosi esempi su come tale prova possa essere efficacemente fornita dal lavoratore.
- Comunicazioni Obbligatorie: Un elemento probatorio efficace è senza dubbio costituito dalla comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto che il datore di lavoro invia ai servizi per l’impiego. Se in tale modello (UNILAV o predecessori) il datore indica come causale “licenziamento”, questo atto assume una valenza quasi confessoria. Il Tribunale di Gela (sentenza n. 138/2024) ha statuito che tale documento “dimostra indiscutibilmente la volontà di recedere dal rapporto ad opera della parte convenuta“. Analogamente, il Tribunale di Napoli (sentenza n. 1525/2023) e il Tribunale di Catania (sentenza n. 690/2024) hanno ritenuto assolto l’onere probatorio posto in capo al lavoratore proprio sulla base di tale documentazione.
- Prova Testimoniale e Presuntiva: La prova può essere raggiunta anche tramite testimoni che abbiano assistito direttamente all’allontanamento o a dichiarazioni inequivoche del datore di lavoro. Inoltre, il giudice può fare ricorso a presunzioni gravi, precise e concordanti (Cassazione, sentenza n. 1336/2024).
- Offerta della Prestazione e Rifiuto Datoriale: Un comportamento attivo del lavoratore può essere decisivo. La Corte d’Appello di Bari (sentenza n. 584/2024) ha sottolineato che il lavoratore è nella condizione di “precostituirsi la prova dell’offerta della propria prestazione e del conseguente eventuale rifiuto del datore di lavoro“. Una raccomandata a/r o una PEC con cui il lavoratore si mette a disposizione per riprendere servizio, a fronte di un silenzio o di un rifiuto esplicito del datore, costituisce un forte indizio dell’avvenuta estromissione.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Modulo 24 Contenzioso Lavoro.