I controlli devono sempre avvenire nel pieno rispetto della privacy e della dignità del lavoratore.
L’impiego delle agenzie investigative costituisce uno strumento potenzialmente molto efficace per le aziende, consentendo loro di individuare condotte illecite eventualmente adottate dai propri dipendenti, come nel caso dell’uso improprio dei permessi previsti dalla legge 104/92. Tuttavia, è indispensabile contemperare l’esigenza del datore di lavoro di tutelare e proteggere gli interessi aziendali e, dall’altro, garantire al lavoratore la tutela della sua dignità e della sua riservatezza. Nel ricorso a tale tipo di soluzione, occorre evitare ogni forma di sorveglianza invasiva o indiscriminata.
Al riguardo, precisiamo che sono senza dubbio vietate le indagini condotte dalle agenzie investigative destinate al controllo dell’attività lavorativa dei propri dipendenti, in quanto l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori stabilisce espressamente che i controlli svolti tramite investigazioni esterne non possono riguardare l’adempimento della prestazione lavorativa. Possono invece essere legittimi i controlli finalizzati all’individuazione di comportamenti illeciti che esulano dalle normali attività lavorative.
In particolare, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento del regolare utilizzo dei permessi 104 (Cassazione civile, Sezione lavoro, Ordinanza 30 gennaio 2025, n. 2157; Cassazione civile, Sezione lavoro, Ordinanza, 20 giugno 2024, n. 17004).
Inoltre, la giurisprudenza ha ribadito che l’impiego di agenzie investigative deve essere giustificato da ragioni concrete. Infatti, l’indagine è considerata legittima solo qualora vi siano fondati sospetti da parte del datore su un utilizzo improprio dei permessi da parte del lavoratore.
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Con l’ordinanza n. 16358 del 17 giugno 2025, la Corte di Cassazione è intervenuta in tema di licenziamento per giusta causa, fornendo chiarimenti sul riparto dell’onere della prova e sul corretto approccio che il giudice di merito deve adottare quando il recesso datoriale è fondato su una pluralità di addebiti.
La vicenda trae origine dal licenziamento disciplinare intimato da una Fondazione Lirico-Sinfonica (di seguito, la “Fondazione”) a una sua dipendente, una cantante lirica. La lavoratrice, durante un periodo di assenza per malattia, era stata oggetto di una duplice contestazione disciplinare. In primo luogo, le veniva addebitato di essersi allontanata dalla sua residenza durante le fasce di reperibilità e, in secondo luogo, di aver svolto attività (tra cui, pranzare fuori con il suo compagno, fare acquisti nei negozi e cantare durante cerimonie religiose) a dispetto del suo stato di malattia.
Il Tribunale di Napoli, sia nella fase sommaria sia nell’ambito dell’opposizione del c.d. Rito Fornero, aveva rigettato l’impugnativa della lavoratrice, confermando la legittimità del licenziamento. La Corte d’Appello di Napoli, nel riformare la sentenza di primo grado, dichiarava l’illegittimità del recesso datoriale, ordinando la reintegrazione in servizio della dipendente oltre ad un risarcimento del danno pari ad otto mensilità.
Il ragionamento della Corte territoriale si era concentrato quasi esclusivamente su un solo addebito. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che le attività canore svolte durante la malattia fossero di modesta portata, occasionali e non qualificabili come prestazione professionale. Sulla base di questa analisi, la Corte d’Appello aveva concluso per “l’insussistenza del fatto contestato“.
La Fondazione ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra i vari motivi, la totale omissione di valutazione da parte della Corte d’Appello riguardo all’ulteriore ed autonomo addebito.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto il ricorso promosso dalla Fondazione proprio in merito a tale aspetto, cassando la sentenza d’appello e rinviando la causa a una diversa sezione della Corte d’Appello di Napoli per un nuovo esame.
La Cassazione ha infatti censurato la sentenza resa dalla Corte d’Appello per aver concentrato il proprio decisum su un unico addebito.
A tal proposito, la Corte ha ribadito un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui “qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro” .
In applicazione di tale principio, non spetta al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento si fonda sul complesso delle condotte, ma è onere del lavoratore provare che i singoli episodi, considerati isolatamente, non sarebbero stati sufficientemente gravi da giustificare il recesso. La Corte d’Appello, omettendo completamente l’esame di uno degli addebiti, ha – ad avviso della Corte – violato tale principio.
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Analisi e impatti della sentenza della Corte Costituzionale n. 111/2025 che introduce altresì una nuova variabile fattuale nel contenzioso sui licenziamenti, ovverosia lo stato di salute psico-fisica del lavoratore
Con la sentenza n. 111/2025, depositata in data 18 luglio 2025, la Corte Costituzionale ha pronunciato un intervento di notevole impatto sul diritto del lavoro, dichiarando l’illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 6, primo comma, della Legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui non prevede che, qualora il lavoratore si trovi in uno stato di incapacità di intendere e di volere al momento della ricezione della comunicazione di licenziamento o durante il decorso del termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, egli sia esonerato dall’onere della previa impugnazione stragiudiziale e possa impugnare il licenziamento direttamente con ricorso giudiziale (o con la richiesta di conciliazione o arbitrato) da proporsi nel termine di 240 giorni decorrente dalla comunicazione del recesso.
Per comprendere la portata della sentenza resa dalla Corte Costituzionale, è necessario delineare il contesto normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce.
Il fulcro della disciplina è dettato dall’art. 6 della Legge 15 luglio 1966, n. 604. Nella sua formulazione attuale, frutto delle modifiche introdotte prima dall’art. 32 della Legge n. 183/2010 e poi dall’art. 1, comma 38, della Legge n. 92/2012, la norma struttura l’impugnazione del licenziamento come una fattispecie a formazione progressiva, scandita da una duplice barriera temporale:
Il mancato rispetto di anche uno solo di questi termini comporta la decadenza dal diritto di impugnare e, di conseguenza, la stabilizzazione degli effetti del licenziamento, precludendo al lavoratore sia la tutela specifica (reintegrazione) sia quella meramente risarcitoria prevista dalla normativa speciale.
La qualificazione del termine come “di decadenza” è di cruciale importanza. Ai sensi dell’art. 2964 del Codice Civile, la decadenza non è soggetta né a interruzione né a sospensione, salvo che sia disposto altrimenti. Tale principio generale rende il termine per l’impugnazione del licenziamento impermeabile a vicende soggettive che normalmente potrebbero sospendere il decorso del tempo, come la malattia. La ratio dell’istituto è quella di imporre l’esercizio di un diritto entro un tempo predeterminato e breve, al fine di cristallizzare una situazione giuridica incerta.
Il momento da cui decorre il termine di 60 giorni (dies a quo) è la “ricezione” della comunicazione di licenziamento. Essendo il licenziamento un atto unilaterale recettizio, la sua efficacia e la decorrenza dei termini ad esso collegati sono disciplinate dall’art. 1335 del Codice Civile. Tale norma stabilisce una presunzione di conoscenza: “La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”.
È proprio sull’interpretazione di questa norma che si fonda l’orientamento giurisprudenziale consolidato.
Ed infatti, la giurisprudenza di legittimità, a partire da pronunce risalenti (Cass. n. 5563 del 1982), ha interpretato le norme sopra descritte in modo rigoroso e formalistico, privilegiando l’esigenza di certezza.
L’orientamento dominante sposa la cosiddetta “teoria della ricezione” o “della conoscibilità“. Secondo tale interpretazione, ciò che rileva ai fini della produzione degli effetti dell’atto non è la conoscenza effettiva da parte del destinatario, ma la sua mera conoscibilità, la quale è presunta nel momento in cui l’atto giunge al suo indirizzo.
La conseguenza diretta di tale impostazione è che la prova contraria ammessa dall’art. 1335 c.c. (“impossibilità di averne notizia senza sua colpa“) non può vertere su condizioni soggettive del ricevente.
Come evidenziano le Sezioni Unite nell’ordinanza di rimessione alla Consulta, “la prova idonea a vincere la presunzione deve, quindi, riguardare circostanze che attengano non alle condizioni soggettive del ricevente, ma a fattori esterni e oggettivi che, concernendo il collegamento del soggetto con il luogo di consegna, siano idonei a escludere la conoscibilità dell’atto” (Cassazione, SS.UU., ordinanza del 5 settembre 2024, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2024).
Pertanto, lo stato di incapacità di intendere e di volere del lavoratore, essendo una condizione puramente soggettiva e interna alla sua sfera personale, è stato costantemente ritenuto irrilevante ai fini del decorso del termine di decadenza. Il termine inizia a decorrere inesorabilmente dal momento in cui la lettera di licenziamento viene recapitata, a prescindere dal fatto che il lavoratore sia in grado di comprenderne il contenuto e di reagire.
Le Sezioni Unite, nell’ordinanza di rimessione alla Consulta, hanno anche escluso la possibilità di tutelare il lavoratore incapace attraverso l’applicazione dell’art. 428 del Codice Civile, che prevede l’annullabilità degli atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere. La ragione di tale esclusione, ben argomentata nell’ordinanza di rimessione, risiede nel fatto che l’art. 428 c.c. si riferisce ad “atti compiuti“, ovverosia a comportamenti commissivi (es. la firma di un contratto). La mancata impugnazione del licenziamento, invece, è un comportamento omissivo, un “non agire” a tutela dei propri diritti, al quale la norma non è estensibile.
La giurisprudenza ha sempre giustificato tale rigore interpretativo con la necessità di bilanciare gli interessi in gioco. Se da un lato vi è il diritto del lavoratore alla stabilità del posto, dall’altro vi è l’interesse del datore di lavoro “alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa“. L’imposizione di un breve termine di decadenza risponde proprio a questa seconda esigenza, evitando che le decisioni organizzative dell’impresa restino in uno stato di incertezza per un lungo periodo. La decadenza, in quest’ottica, non è una sanzione per l’inerzia colpevole, ma la conseguenza oggettiva del mancato rispetto di un onere procedurale posto a presidio della stabilità dei rapporti economici.
In sintesi, il quadro che emerge è quello di un sistema normativo e giurisprudenziale “granitico”, costruito su tre pilastri:
È proprio contro la rigidità di questo sistema consolidato che si scaglia l’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite della Cassazione. Pur riconoscendone la coerenza interna e la finalità di certezza, il Collegio rimettente ne mette in dubbio la compatibilità con i principi costituzionali fondamentali (ragionevolezza, uguaglianza, diritto al lavoro, alla difesa e alla salute) quando esso si applica a situazioni estreme di “assoluta incolpevole incapacità di comprendere e di autodeterminarsi“, nelle quali il bilanciamento degli interessi appare manifestamente sproporzionato a sfavore del lavoratore.
La sentenza resa della Corte Costituzionale trae origine da una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione in un caso riguardante una lavoratrice licenziata che, a causa di una grave patologia, si trovava in uno stato di incapacità naturale al momento della ricezione dell’atto di recesso e durante la pendenza del termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale.
Il giudice rimettente aveva evidenziato come l’applicazione rigida del termine di decadenza, insensibile alla condizione soggettiva del lavoratore, potesse violare plurimi precetti costituzionali, tra cui:
La Cassazione aveva quindi chiesto alla Corte Costituzionale di intervenire con una pronuncia additiva che facesse decorrere il termine di decadenza non dalla ricezione dell’atto, ma dal momento del recupero della capacità di intendere e di volere da parte del lavoratore.
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Il Tribunale di Catania, con la recente sentenza n. 2385 del 5 giugno 2025, ha ribadito che la domanda di impugnativa del licenziamento, con la quale si censura l’inefficacia dell’atto espulsivo per essere stato intimato oralmente, pone a carico del lavoratore, in ossequio ai principi generali di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare il fatto costitutivo della pretesa, vale a dire che la risoluzione del rapporto di lavoro sia ascrivibile alla volontà datoriale diretta all’estromissione del lavoratore.
La controversia esaminata dal Tribunale di Catania ha ad oggetto l’impugnazione di un presunto licenziamento orale da parte di un Operatore Socio-Sanitario (OSS) nei confronti di una cooperativa sociale.
Il lavoratore ha adito il Tribunale sostenendo di essere stato licenziato verbalmente, dopo essere stato accusato di aver maltrattato un ospite della struttura. Secondo la ricostruzione del ricorrente, il rappresentante legale della cooperativa lo avrebbe invitato “ad andare via” senza alcuna contestazione formale, in violazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Di conseguenza, il ricorrente ha domandato al giudice di accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia del licenziamento, con conseguente ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate e maturande, oltre al versamento dei contributi previdenziali.
La società datrice di lavoro, costituendosi tardivamente in giudizio, ha contestato integralmente la versione dei fatti fornita del ricorrente. In particolare, ha negato di aver mai intimato un licenziamento, orale o di altra forma. Ha invece sostenuto che il lavoratore si fosse allontanato di sua spontanea volontà dal posto di lavoro a seguito di una riunione in cui erano stati discussi suoi presunti comportamenti, senza più farvi ritorno. A sostegno della propria tesi, la società ha affermato che il rapporto di lavoro doveva considerarsi ancora in corso, tanto che non era stata effettuata alcuna comunicazione di cessazione del rapporto agli enti competenti.
Il nucleo della questione giuridica che il Tribunale è stato chiamato a risolvere verteva, quindi, sulla prova del licenziamento orale.
Il Tribunale di Catania ha rigettato la domanda del ricorrente, ritenendo non provato il licenziamento orale.
La decisione si fonda sull’applicazione del principio generale in materia di onere della prova, sancito dall’art. 2697 del Codice Civile. Il giudice ha chiarito che spetta al lavoratore, che lamenta l’inefficacia di un licenziamento perché intimato oralmente, dimostrare il fatto costitutivo della sua pretesa. Tale fatto non è la mera cessazione dell’attività lavorativa, bensì l’atto di “estromissione” da parte del datore di lavoro, ovverosia la manifestazione, anche tramite comportamenti concludenti, della volontà datoriale di risolvere il rapporto.
Il Tribunale ha evidenziato come la semplice interruzione della prestazione sia un “fatto neutro, di significato polivalente“, che potrebbe derivare tanto da un licenziamento, quanto da dimissioni o da una risoluzione consensuale. Citando consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra cui le sentenze n. 3822/2019, n. 13195/2019 e n. 149/2021), il giudice ha ribadito che il lavoratore deve provare “l’atto datoriale consapevolmente volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo“.
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che il ricorrente non avesse assolto a tale onere probatorio sulla base delle seguenti argomentazioni:
In conclusione, di fronte a una situazione di “incertezza probatoria”, il Tribunale ha rigettato la domanda del lavoratore che non era riuscito a dimostrare il fatto costitutivo della sua pretesa, ossia l’estromissione per volontà datoriale. Le spese di lite sono state integralmente compensate tra le parti in ragione della peculiarità della fattispecie e della natura delle parti in causa.
Con il Provvedimento n. 288 del 21 maggio 2025, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha comminato ad una società italiana una sanzione del valore di 420mila euro per trattamento illecito dei dati personali di una dipendente, poi utilizzati per giustificarne il licenziamento.
La lavoratrice presentava reclamo contro la società lamentando l’uso improprio di suoi dati personali, estratti dal suo profilo del social network ‘Facebook’, dall’app di messaggistica ‘Messenger’ e da alcune chat della piattaforma ‘WhatsApp’. Tali informazioni, portate alla conoscenza della società, erano state impiegate per motivare due diverse contestazioni disciplinari a suo carico.
Nella prima contestazione, datata 16 febbraio 2024, la società riportava il contenuto di alcuni commenti scritti dalla reclamante sul proprio profilo Facebook, mediante l’inserimento di stralci virgolettati dei commenti e la descrizione del contenuto di alcune foto. Nella seconda, datata 21 marzo 2024, riportava il contenuto di una conversazione avvenuta tramite account Messenger tra la reclamante e un terzo (che la inoltrava alla Società tramite WhatsApp), non dipendente della Società, trascrivendo stralci virgolettati della conversazione. Inoltre, nella medesima contestazione, venivano riportati stralci virgolettati di una comunicazione inviata dalla reclamante, in data 22 febbraio 2024, ad alcuni colleghi, tramite il proprio account WhatsApp.
Richiamando l’articolo 8 della L 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che vieta al datore di lavoro “di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, la società sosteneva di non aver avuto un ruolo attivo nella raccolta dei dati ma che, essendo tali informazioni pervenutele tramite segnalazioni, potessero essere utilizzate a fini disciplinari perché il caso di specie non configurerebbe una indagine vietata dallo Statuto dei Lavoratori.
L’Autorità Garante coglie l’occasione per ricordare che:
L’Autorità, chiarendo di non essere investita del compito di valutare i fatti ritenuti disciplinarmente rilevanti ma che spetta invece al datore di lavoro – titolare del trattamento – effettuare una valutazione circa la liceità ma anche l’adeguatezza, la pertinenza e la proporzionalità dei trattamenti di dati che si intende effettuare, ha rilevato le numerose illiceità poste in essere dalla società che “una volta venuta a conoscenza che i dati trasmessi riguardavano comunicazioni private e commenti sul profilo Facebook chiuso, […] avrebbe dovuto astenersi dall’utilizzarli”.
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