La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), con la sentenza del 17 marzo 2021 (causa C-652/2019), si è espressa sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Milano il 5 agosto 2019 relativamente alla legittimità della disciplina dei licenziamenti collettivi contenuta nel Jobs Act.
Il caso riguarda una lavoratrice assunta a tempo determinato antecedentemente all’entrata in vigore del Jobs Act, stabilizzata a tempo indeterminato a fine marzo 2015 e poi licenziata nel 2017 nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
I dipendenti interessati dalla procedura in questione, inclusa la lavoratrice, adivano il Tribunale di Milano che dichiarava illegittimi i licenziamenti impugnati per violazione dei criteri di scelta. Il Tribunale riconosceva alla lavoratrice – diversamente dai suoi colleghi che erano stati reintegrati poiché assunti a tempo indeterminato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/20215 (cd. Jobs Act), ossia prima del 7 marzo 2015 – la sola tutela indennitaria.
Il Tribunale, preso atto dell’esistenza di due regimi sanzionatori differenti in caso di licenziamento collettivo illegittimo scaturenti dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, ha chiesto alla Corte di Strasburgo se una simile differenza di trattamento fosse contraria al diritto dell’Unione europea.
La Corte di Giustizia ha riconosciuto la conformità del D.Lgs. n. 23/2015 con il diritto dell’Unione europea, chiarendo che non è discriminatorio il regime che prevede solo un’indennità (e non anche la reintegrazione) per il lavoratore assunto con contratto a termine prima del 7 marzo 2015 e stabilizzato dopo. Ciò in quanto il diverso trattamento è giustificato dal fatto che i lavoratori interessati dalle tutele crescenti ottengono, in cambio di un regime di tutela meno forte, una forma di stabilità dell’impiego.
Si tratterebbe secondo la Corte di Strasburgo di un incentivo volto a favorire la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato che costituisce un obiettivo legittimo di politica sociale e di occupazione, la cui scelta rientra nell’ampio margine di discrezionalità degli Stati membri.
A parere della Corte di Strasburgo tale considerazione si pone in linea con quanto deciso dalla Consulta nel 2018, la quale, trattando sostanzialmente la medesima questione, aveva ritenuto legittimo che la disciplina rimediale potesse essere differenziata in relazione alla data di assunzione.
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Il Tribunale di Trento, con ordinanza del 21 gennaio 2021, ha statuito che costituisce giusta causa di licenziamento il comportamento del dipendente che risulti assente dal lavoro per isolamento fiduciario disposto in conseguenza della sua (evitabile) scelta di trascorrere le ferie all’estero. La pronuncia del Tribunale trae origine dall’impugnazione promossa da una lavoratrice licenziata in quanto, a valle di reiterate assenze a vario titolo (ferie, permessi 104, malattia del figlio ecc.) e rientrata da ultimo da un periodo di ferie in Albania, era rimasta assente dal lavoro per 14 giorni per osservare la quarantena obbligatoria per legge. Assenza, questa, che aveva peraltro causato “pesanti problemi organizzativi (…), procurando in tal modo grave nocumento all’azienda”. La lavoratrice impugnava il licenziamento denunciandone la nullità – ritenendola imputabile a motivo ritorsivo e in quanto tale illecito – e, gradatamente, la carenza degli estremi della giusta causa essendo il fatto ben giustificabile dall’osservanza di un obbligo di legge.
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Il Tribunale di Milano, con il provvedimento n. 5145/2020, ha affermato che la sospensione dei termini processuali introdotta durante il periodo emergenziale si applica anche al termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento. Sotto diverso profilo, i Tribunali di Roma (pronuncia n. 86577/2020) e di Palermo (sentenza 30615/2020) si sono, invece, soffermati sull’impugnativa del licenziamento, inviata a mezzo pec quale allegato, scansione dell’originale, priva di autentica sottoscrizione da parte dell’interessato.
L’art. 6 della Legge 604/1966 prevede che:
Ciò premesso, gli articoli 83, comma 2, del Decreto Cura Italia, e 36, comma 1, del Decreto Liquidità, tra le misure per far fronte all’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del virus COVID-19, hanno disposto la sospensione “straordinaria” dei termini processuali dal 9 marzo 2020 sino al successivo 11 maggio.
In tema di impugnativa del licenziamento, il Tribunale di Milano, con il provvedimento del 14 ottobre 2020 n. 5145, ha affermato che la sospensione dei termini in questione non si applica solo al termine di 180 giorni relativo all’impugnazione giudiziale del licenziamento ma anche al termine decadenziale di 60 giorni inerente alla sua impugnazione stragiudiziale.
A parere del Tribunale una interpretazione restrittiva contrasterebbe con la natura unitaria dei due termini di impugnazione e con la “la ratio della decretazione d’urgenza di limitare le conseguenze negative della pandemia anche per la tutela giurisdizionale dei diritti”.
2) Modalità di impugnazione
Sotto altro profilo, i Tribunali di Roma e di Palermo si sono di recente soffermati sull’impugnativa del licenziamento, inviata a mezzo pec quale allegato, scansione dell’originale, e dunque una copia immagine priva di autentica sottoscrizione da parte dell’interessato.
Il Tribunale di Roma, con la pronuncia del 20 ottobre 2020, n. 86577, ha dichiarato che l’impugnativa di licenziamento può avvenire, indifferentemente, sia (i) allegando al messaggio pec un documento informatico (il c.d. “atto nativo digitale”) sia (ii) inviando la scansione dell’atto cartaceo sottoscritto dal difensore e dall’interessato, anche se privo di firma digitale.
Di diverso avviso è stato il Tribunale di Palermo che, con la sentenza del 28 ottobre 2020, n. 30615, ha dichiarato inefficace l’impugnativa di licenziamento inviata dal legale del lavoratore al datore di lavoro, tramite pec, se non accompagnata dalla sottoscrizione digitale o da un’attestazione di conformità degli atti.
Il contrasto giurisprudenziale ormai aperto sul tema, ci si auspica sia a breve risolto da una decisione della Suprema Corte o da una novella normativa.
Stabilire, infatti, se l’impugnativa quale copia immagine sia efficace o meno è dirimente nel decidere se l’atto così composto abbia il valore di un atto interruttivo dei termini di decadenza di cui all’art. 6 L. n. 604/1966.
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Dall’inizio di febbraio 2020, le autorità pubbliche italiane – per contenere il rischio di contagio e mitigare gli effetti economici e sociali della pandemia – hanno introdotto diverse disposizioni emergenziali garantendo un sostegno finanziario alle famiglie, alle imprese e ai lavoratori.
Inoltre, a seguito dell’emergenza in corso, il Governo italiano continua a rinviare l’efficacia di alcune misure di emergenza e ne introduce di nuove in quanto lo stato di emergenza epidemiologica, ad oggi, scade il 31 gennaio 2021.
Tutte le aziende stanno attraversando un momento critico in quanto devono garantire un adeguato livello di sicurezza nell’ambito delle nuove disposizione introdotte, tra cui si annoverano:
Il Governo italiano ha introdotto nuove procedure per l’ottenimento degli ammortizzatori sociali per far fronte alla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa nell’ambito della crisi economica causata dalla Covid-19. In particolare, a partire dal mese di febbraio 2020, il Governo italiano ha introdotto nuovi criteri per la concessione dei seguenti ammortizzatori sociali:
Fermo restando l’osservanza dei principi generali di correttezza e buona fede, non sono previste particolari restrizioni circa i criteri per l’individuazione dei dipendenti da collocare in cassa integrazione. Sul punto, si segnala che solo il personale dirigente non può accedere agli ammortizzatori sociali.
Ai fini dell’individuazione dell’ammortizzatore sociale, le aziende faranno riferimento alle regole generali che tengono conto del numero di dipendenti e della categoria merceologica. In termini generali, la CIGO è concessa alle imprese industriali, mentre il FIS è concesso alle imprese commerciali che occupano tra 5 e 50 dipendenti. L’altro ammortizzatore – CIGD – è concesso alle imprese che non hanno accesso agli altri ammortizzatori sociali.
Per quanto riguarda la durata, il governo ha prolungato la durata degli ammortizzatori sociali più volte nel corso dell’anno. Ad oggi, la durata è la seguente:
Per poter accedere agli ammortizzatori le imprese devono avviare una procedura di consultazione sindacale semplificata che prevede l’invio di un’informativa alle parti sindacali firmatarie del contratto collettivo di lavoro applicato nell’ambito della quale si indicano le ragioni e la misura dell’intervento richiesto. Le organizzazioni sindacali possono richiedere, entro tre giorni, un incontro che può essere svolto anche in modalità telematica.
Le domande di accesso ai regimi di integrazioni salariali CIGO e FIS devono essere inviate all’INPS, mentre le domande di CIGD sono presentate a livello regionale, a seconda della sede del datore di lavoro.
L’indennità corrisposta ai dipendenti ammonta all’80% della retribuzione ordinaria e non può eccedere determinate soglie (l’indennità massima è pari a circa 1.200 euro lordi al mese).
Per quanto riguarda la CIGO e la FIS il datore di lavoro può decidere (di solito nell’ambito della procedura di consultazione) di anticipare il trattamento di integrazione salariale in favore dei lavoratori interessati. Mentre, per quanto riguarda la CIGD la stessa viene corrisposta direttamente dall’INPS al dipendente.
Per le imprese che non fanno ricorso agli ammortizzatori sociali (ad eccezione di quelle appartenenti al settore agricolo), il Governo italiano ha introdotte l’esenzione dal versamento dei contributi previdenziali, fatta eccezione per i premi e i contributi all’INAIL.
Ai sensi dell’articolo 3 del decreto legge n. 104/2020 (c.d. “Decreto Agosto”) le imprese che non hanno presentato domanda per le 18 settimane di cassa integrazione ma che hanno già beneficiato degli ammortizzatori sociali Covid-19 a maggio e giugno 2020 possono richiedere l’esenzione dal versamento dei contributi previdenziali, per un massimo di 4 mesi, fino al 31 dicembre 2020. L’esenzione è consentita anche ai datori di lavoro che hanno richiesto periodi di integrazione salariale ai sensi del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 nei periodi successivi al 12 luglio 2020.
L’importo dell’esenzione non può superare il doppio delle ore di cassa integrazione salariale usufruite nei mesi di maggio e giugno 2020.
Inoltre, un ulteriore sgravio contributivo è concesso (per un periodo massimo di 6 mesi dall’assunzione) in favore dei datori di lavoro che assumono dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Il limite massimo di esenzione è pari a circa 8.000 euro su base annua. Tale esenzione sarà consentita anche in caso di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Infine, ai sensi dell’art. 12 del Decreto Legge n. 137/2020 (c.d. “Decreto Ristori”) i datori di lavoro non agricoli che non fanno richiesta delle 6 settimane di cui al Decreto Ristori (ovvero le 6 settimane aggiuntive descritte nel paragrafo precedente) possono beneficiare dell’esenzione contributive per un ulteriore periodo di 4 settimane, utilizzabile entro il 31 gennaio 2021 nei limiti delle ore di integrazione salariale già percepite dalle aziende nel giugno 2020.
Fino al dicembre 2020, è possibile prorogare o rinnovare i contratti a tempo determinato anche in assenza delle causali di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015. Le proroghe o i rinnovi devono essere effettuati entro e non oltre il 31 dicembre 2020, ma la scadenza di tali contratti può essere successiva a tale data. La durata massima complessiva del contratto a tempo determinato rimane di 24 mesi come previsto dall’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015.
Nell’ambito dell’attuale emergenza il Governo ha introdotto il divieto di comminare licenziamenti ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 604/1966 e di avviare procedure di licenziamento collettivo ai sensi della legge n. 223/1991, salvo le seguenti ipotesi:
Nella fase di emergenza è stata introdotta una modalità semplificata per avviare il lavoro agile. Infatti, fino alla fine dello stato di emergenza epidemiologica, il lavoro agile può essere attivato anche in assenza di accordi individuali.
Di conseguenza, una volta terminato lo stato di emergenza, il lavoro agile dovrà essere regolamentato nell’ambito della normativa ordinaria di cui al D.Lgs. n. 81/2017.
Nell’ambito dell’emergenza il ricorso al lavoro agile è risultato notevole anche al fine di limitare la diffusione del virus e garantire la continuità aziendale. Tuttavia, al termine del periodo emergenziale, è auspicabile che il lavoro agile recuperi lo spirito originario di accrescere la competitività delle imprese e al contempo ricercare un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.
Infine, anche se è possibile attivare il lavoro agile nella modalità semplificata e, quindi, senza l’accordo individuale con il dipendente, è consigliabile sottoscrivere l’accordo individuale disciplinando, ad esempio: (i) il potere di controllo del datore di lavoro, (ii) alcuni profili relativi all’utilizzo di strumenti informatici che hanno evidenti implicazioni sul trattamento dei dati, (iii) il cosiddetto diritto alla disconnessione.
Fonte: Invest in Tuscany
Con sentenza 150 depositata lo scorso 16 luglio la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
La questione di costituzionalità era stata sollevata dai Tribunali di Bari e di Roma rispettivamente con ordinanza del 18 aprile 2019 e del 9 agosto 2019 nell’ambito di giudizi aventi ad oggetto l’illegittimità dei licenziamenti intimati in violazione delle norme procedurali tra cui l’art. 7 della Legge n. 300/1970.
Ad avviso dei giudici rimettenti, il licenziamento intimato in violazione delle prescrizioni formali (i) determina l’inosservanza di disposizioni imperative, preordinate a garantire il principio di civiltà giuridica “audiatur et altera pars”, e (ii) si configurerebbe pur sempre come “un illecito che deve dar luogo ad un risarcimento “adeguato e personalizzato”, ancorché forfettizzato”.
La Consulta ha rilevato, uniformandosi ai principi espressi nella precedente sentenza n.194/2018, che il meccanismo di quantificazione dell’indennità applicato solo ai licenziamenti per vizi di natura formale “non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”. Difatti, tale criterio matematico non appare “congruo rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma”.
Inoltre, l’anzianità di servizio “trascura la valutazione della specificità del caso concreto” ed è inidonea a esprimere “la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore”. Pertanto, essa non presenta una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare e che non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico dell’anzianità di servizio.
Per la Consulta, quindi, nel rispetto del limite minimo e massimo stabilito dal legislatore, il giudice adito, nella determinazione dell’indennità deve tener conto, innanzitutto, dell’anzianità di servizio, che rappresenta “la base di partenza della valutazione”. Ad ogni modo, il giudice non può prescindere dall’applicazione “con apprezzamento congruamente motivato” di altri criteri, che concorrono “in chiave correttiva” a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto. Tra questi rilevano la gravità delle violazioni, ai sensi dell’art. 18, sesto comma, della Legge n. 300/1970, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della Legge n. 604 del 1966.
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