La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16975 del 25 maggio 2022, è intervenuta in tema di unicità del centro di imputazione dei rapporti di lavoro, delineandone gli indici sintomatici.
Con sentenza resa in sede di reclamo ai sensi della Legge n. 92/2012, la Corte territoriale aveva ritenuto insussistente la ragione addotta a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato ad una dipendente (ossia, l’asserita dismissione della gestione dell’attività alberghiera), rinvenendo, altresì, ai fini dell’individuazione del regime di tutela applicabile, la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi tra il formale datore di lavoro e altre società consociate.
La Corte d’appello aveva accertato, da un lato, che il contratto di appalto per la fornitura di alcuni servizi stipulato tra due società fosse illecito avendo le aziende la medesima sede legale, il medesimo oggetto sociale nonché il medesimo proprietario, e, dall’altro, che gli elementi di collegamento societario avessero travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica di una sostanziale unicità soggettiva.
Conseguentemente, dopo aver effettuato una sommatoria di tutti i lavoratori occupati nelle società consociate, la Corte territoriale, considerata la manifesta insussistenza della ragione posta a base del licenziamento, aveva condannato in solido le società a reintegrare in servizio la dipendente e a corrisponderle un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 18, commi 4 e 7, della Legge n. 300 del 1970.
Avverso la sentenza della Corte territoriale, proponeva ricorso in cassazione una delle società consociate, eccependo, tra l’altro, che tra esse non si configurava un’ipotesi di collegamento e controllo societario ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. né un’ipotesi di codatorialità, avendo la dipendente prestato attività solo ed esclusivamente a favore di una sola società.
La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso promosso dalla società, ha preliminarmente statuito come l’accertamento relativo al carattere fittizio dell’appalto di servizi (rivelatosi un appalto di mera manodopera) e la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi fosse stato condotto dalla Corte d’Appello dopo un accurato esame dei fatti di causa, senza quindi rinvenire nel percorso logico giuridico condotto dalla stessa alcun vizio eccepito dalla società ricorrente.
Richiamando il proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha, quindi, delineato i criteri e gli indici sintomatici in tema di unicità del centro di imputazione, ossia:
I giudici di legittimità, nel definire la vicenda coerentemente agli esiti di merito, hanno anche chiarito che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta necessariamente il venire meno “dell‘autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta, alle quali continuano a fare capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le distinte e rispettive imprese“. Tuttavia, gli obblighi derivanti da un rapporto di lavoro possono certamente essere estesi alle singole società, individuando un unitario centro di imputazione qualora, come nel caso di specie, sia provato “in modo adeguato, attraverso l’esame delle singole imprese, da parte del giudice del merito” che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività.
Inoltre, la Corte di Cassazione in merito alla censura relativa al mancato accertamento della eccessiva onerosità della reintegrazione nel posto di lavoro, nonostante l’accertata manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, ha evidenziato come la Consulta abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della Legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b ), della Legge Fornero laddove prevedeva che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma (cfr sentenza n. 597/2021). La Cassazione ha anche sottolineato che le sentenze della Corte costituzionale producono l’annullamento delle norme di legge dichiarate incostituzionali, con effetti erga omnes, non solo ex nunc, ma anche ex tunc, con il solo limite dei cc.dd. rapporti esauriti. E non ricorrendo tale ultima evenienza nel caso di specie, a parere della Corte di Cassazione, si deve ritenere correttamente applicata la sanzione reintegratoria (in base al combinato disposto dei commi 7 e 4 dell’art. 18, della Legge n. 300/1970) a fronte dell’accertata manifesta insussistenza della ragione addotta per il licenziamento (ossia la dismissione della gestione dell’attività alberghiera).
Altri insights correlati:
Con la recentissima sentenza n. 181 pubblicata il 27 aprile 2022, resa nell’ambito del giudizio di opposizione del c.d. Rito Fornero, il Tribunale di Vicenza si è espresso in merito alla computabilità (o meno), nel periodo di comporto, delle assenze per malattia riconducibili all’invalidità del dipendente.
La vicenda trae origine dal licenziamento intimato ad una lavoratrice invalida per essersi assentata per malattia per un numero di giorni superiore a 365 nell’ultimo triennio lavorativo, così superando il periodo di comporto disciplinato dal CCNL Agidae socio-assistenziale applicabile al rapporto di lavoro.
La lavoratrice, impugnando il licenziamento, ne eccepiva la natura discriminatoria per ragioni di handicap, domandando al Giudice, in via principale, di dichiararne la nullità.
A sostegno della propria tesi, la dipendente richiamava la normativa comunitaria in materia di discriminazione diretta e indiretta (Direttiva UE 2000/78/CE) nonché le sentenze rese sul tema dalla Corte di Giustizia Europea, sostenendo che il datore di lavoro, essendo tenuto ad adottare gli “accomodamenti ragionevoli” al fine di “garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri dipendenti”, avrebbe dovuto escludere dal computo del periodo di comporto i giorni di assenza riconducibili alla patologia “endometriosi”, per la quale la dipendente era stata dichiarata invalida, con conseguente mancato superamento del periodo di comporto.
Il Tribunale, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria, rigettava, sulla base di plurime argomentazioni, l’opposizione promossa dalla dipendente.
Se – ha precisato il Giudice dell’opposizione – è innegabile che la Corte di Giustizia Europea abbia individuato una discriminazione indiretta in danno del disabile nella modalità di computo delle assenze per malattia, in quanto il dipendente disabile corre un rischio maggiore di accumulare giorni di malattia, è altrettanto vero che le conclusioni cui è giunta la Corte Europea non possono essere estese ad ogni caso di licenziamento del disabile.
Ciò in quanto spetta sempre al Giudice nazionale, da un lato, accertare se il datore di lavoro abbia o meno posto in essere soluzioni ragionevoli al fine di garantire il rispetto della parità di trattamento e, dall’altro, verificare la legittimità della finalità perseguita dalla normativa interna.
Quanto al primo aspetto, nel corso del giudizio, il Giudice ha accertato che il datore di lavoro avesse posto in essere numerosi “accomodamenti ragionevoli” a favore della lavoratrice, tra cui la sottoposizione a visite mediche che hanno accertato l’idoneità della dipendente alla mansione specifica.
Con riferimento al secondo aspetto, il Tribunale si è espresso in merito alla necessità di soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti, ossia l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico e quello del datore ad ottenere una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto altresì conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge…
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9800 del 25 marzo 2022, ha stabilito che la procedura di licenziamento collettivo – se la comunicazione di cui all’art. 4, co. 9, L. n.223/1991 non indica correttamente quali sono state le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori interessati – è illegittima e, di conseguenza, il licenziamento intimato all’esito deve essere annullato.
La Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento collettivo intimato dalla società datrice di lavoro ai ricorrenti con comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n.223/1991.
La Corte territoriale dichiarava risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti, condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ciò in quanto, a suo dire, il licenziamento in questione risultava affetto da violazione di carattere formale consistente nella mancata indicazione nella comunicazione dei punteggi concreti attribuiti a ciascun lavoratore e dei dati fattuali relativi ai carichi di famiglia, dei punteggi astratti previsti in relazione a ciascun criterio nonché dei dati relativi all’anzianità di servizio di ciascun lavoratore.
Per la cassazione della decisione proponevano ricorso sei degli originari lavoratori sulla base di quattro motivi; la società intimata resisteva con tempestivo controricorso. Il Procuratore generale concludeva per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.
Secondo la Corte di Cassazione, la mancata puntuale indicazione, nella comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n. 223/91, delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, non permette al lavoratore di comprendere per quale ragione il licenziamento abbia interessato proprio lui e non altri colleghi e, quindi, ostacola la contestazione del recesso datoriale. Ciò comporterebbe un’ipotesi di illegittimità della procedura legislativamente prescritta, poiché tale mancanza non integrerebbe una mera irregolarità formale ma comporterebbe una vera e propria violazione dei criteri di scelta. L’illegittimità de quo, a parere della Corte, non può che determinare l’annullamento del licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori alla reintegrazione del posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Altri insights correlati:
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con decreto ex art. 28, Legge n. 300/1970, del 24 febbraio 2022, ha affermato che il licenziamento del delegato sindacale, in assenza di previo nulla osta del sindacato di appartenenza, oltre a non produrre effetti, costituisce condotta antisindacale.
La decisione trae origine dal ricorso depositato dall’associazione sindacale di categoria di appartenenza del dipendente (delegato RSU), con il quale veniva denunciata la condotta antisindacale posta in essere dalla società datrice di lavoro, rea di avergli irrogato il licenziamento per giusta causa, in violazione dell’art. 14 dell’Accordo Interconfederale del 18 aprile 1966.
La norma di cui sopra, richiamata dal CCNL Industria Metalmeccanica, per i casi di licenziamento disciplinare intimati nel periodo di vigenza della carica sindacale, prevede che la relativa operatività sia subordinata all’ottenimento da parte del datore di lavoro del nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza del delegato sindacale. In particolare, il datore di lavoro deve notificare il licenziamento al delegato sindacale e all’associazione di categoria che è chiamata a pronunciarsi sul provvedimento espulsivo entro i sei giorni successivi. L’organizzazione sindacale può rifiutare il nulla osta impedendo così che il licenziamento produca i suoi effetti. Ove, invece, l’organizzazione non si pronunci nei sei giorni successivi o non ritenga di avviare la procedura conciliativa facoltativa prevista dall’articolo 14 citato, il licenziamento acquista efficacia.
La finalità della procedura in oggetto è volta a (i) verificare che non si tratti di un licenziamento strumentale e, dunque, ingiustificato nonché (ii) evitare possibili turbamenti connessi al licenziamento di un rappresentante sindacale.
Solo dopo il deposito del ricorso ex art. 28, Legge n. 300/1970 da parte dell’associazione di categoria, la società aveva attivato la procedura, comunicando anche la riammissione in servizio del delegato sindacale, ai fini del suo espletamento ma esonerandolo dal rendere la prestazione lavorativa.
Il giudice adito ha, innanzitutto osservato che l’assenza della richiesta di nulla osta da parte del datore di lavoro comporta non solo la “inoperatività” del licenziamento ma anche la sussistenza di un comportamento sanzionabile come condotta antisindacale. E, a suo parere, l’attivazione della procedura (a seguito del deposito del ricorso), con contestuale riammissione solo formale in servizio del lavoratore non ha determinato, come sostenuto dalla società, il venire meno dell’attualità della condotta antisindacale e la conseguente cessazione della materia del contendere.
Per il Tribunale, infatti, ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’interesse ad agire ex art. 28, Legge n. 300/1970 per l’accertamento di una condotta antisindacale non è solo l’attualità del comportamento antisindacale, ma anche l’attualità o la permanenza dei suoi effetti lesivi. Effetti lesivi che, nel caso di specie, si sarebbero configurati nell’aver il datore di lavoro di fatto impedito al delegato RSU, sospeso dalla prestazione, l’accesso ai locali aziendali e l’esercizio delle proprie funzioni.
Il giudice ha, dunque, disposto la prosecuzione del rapporto di lavoro senza esonero dalla prestazione lavorativa e per il tempo necessario all’espletamento della procedura prevista dall’articolo 14 dell’accordo interconfederale. Infine, il decreto, nel richiamare l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto che, nel caso di specie, non trova applicazione la sanzione della reintegrazione di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevista per i casi di nullità del licenziamento. Ciò in quanto, la violazione dell’articolo 14 si configura quale mero inadempimento contrattuale e non di fonte legale. La nullità del licenziamento, infatti, opera solo se il recesso datoriale è fondato sull’appartenenza a un sindacato e/o sulla partecipazione del lavoratore all’attività sindacale, risultando, di conseguenza, discriminatorio.
Altri insights correlati:
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, ha statuito che per la validità del licenziamento per superamento del periodo di comporto “per sommatoria” occorre la specifica indicazione delle giornate di assenza per malattia, alle quali non sono computabili le assenze ingiustificate.
Una dipendente della Prefettura di Udine aveva impugnato il licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, eccependo che nell’atto espulsivo non vi era l’indicazione corretta dei giorni conteggiati e sommati.
Il Tribunale adito, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, aveva dichiarato il licenziamento illegittimo e condannato il Ministero alla sua reintegra.
Il Ministero aveva così impugnato la sentenza dinanzi la Corte di Appello di Trieste, la quale confermava la pronuncia di primo grado, avvallando il principio per cui se il datore di lavoro indica nel provvedimento di recesso le giornate di assenza del lavoratore, non può successivamente modificarle o aggiungerne altre.
Nel caso di specie, il periodo indicato dal Ministero per assenza per malattia era di 472 giorni complessivi (considerando il c.d. comporto per sommatoria) e, dunque, era inferiore al periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva e fissato in 484 giorni. Ciò in quanto, nel periodo indicato dal Ministero erano stati ricompresi anche 12 giorni di assenza ingiustificata della lavoratrice e, dunque, non rientranti nel calcolo del superamento del periodo di comporto.
Inoltre, per la Corte di Appello a nulla valeva la dimostrazione in giudizio da parte del Ministero per cui anche i giorni di assenza ingiustificata erano di fatto riconducibili alla malattia della dipendente. Al riguardo, secondo la Corte di Appello, ciò che rilevava era la “incontrovertibilità” dei periodi indicati nella comunicazione di licenziamento, sulla base del principio di immodificabilità dei motivi posti alla base del recesso.
Il Ministero soccombente impugnava così la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.
Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito. In particolare, la Corte di Cassazione conferma l’accertamento della Corte territoriale per cui i 12 giorni di assenza ingiustificata contestati non erano computabili ai fini del superamento del periodo di comporto essendo riferiti ad una diversa fattispecie.
A tal proposito, la Corte di Cassazione osserva che, diversamente da quanto preteso dal Ministero, la Corte d’Appello non ha inteso affermare che in caso di superamento del periodo di comporto il datore di lavoro debba indicare già nella lettera di licenziamento i singoli giorni di malattia considerati per il calcolo del comporto e, dunque, con la preclusione di una successiva precisazione da parte del datore medesimo.
Sul punto, la Cassazione afferma che il datore di lavoro, se specifica le assenze prese in considerazione, non può ex post aggiungere ovvero modificare le giornate considerate per il superamento del periodo di malattia consentito della contrattazione collettiva.
Secondo la Corte, infatti, in tema di licenziamento per superamento del comporto, “il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato articolo 2 della legge 604/1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l’onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tuttavia, ciò vale per il comporto cosiddetto “secco” (ovvero un unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore; invece, nel comporto c.d per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorre una indicazione specifica delle assenza computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore”. In definitiva, a parere della Corte di Cassazione, anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per sommatoria vale la regola dell’immodificabilità delle ragioni poste alla base del recesso. Regola questa che costituisce una garanzia del lavoratore il quale, altrimenti, non avrebbe la possibilità di contestare il provvedimento espulsivo intimato nei suoi confronti.
Altri insights correlati: