Licenziamenti, obiettivo centrato “Cause ridotte in modo netto ora la giustizia è meno oberata” (Affari&Finanza, 13 marzo 2017 – Vittorio De Luca)

13 Mar 2017

“DAL 2012 AD OGGI DIMEZZATE LE LITI PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO ADDIRITTURA RIDOTTE AD UN TERZO QUELLE PER RAGIONI DISCIPLINARI LO SCOPO DI SGRAVARE I TRIBUNALI SI PUÒ RITENERE RAGGIUNTO”, DICE L’AVVOCATO VITTORIO DE LUCA

Secondo le statistiche del ministero « della Giustizia, le cause per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si sono dimezzate dal 2012, quelle per licenziamento disciplinare si sono ridotte ad un terzo». Vittorio De Luca, partner dello studio di giuslavoristi De Luca cita i dati del “Censimento permanente dei procedimenti giudiziari in materia di lavoro”, per mostrare come il legislatore abbia raggiunto l’obiettivo: limitare il ricorso al tribunale, considerato un deterrente alle assunzioni. «Le riforme del 2012 (la Fornero) e quella del 2015 (il Jobs Act) spiega il legale sono nate proprio col dichiarato intento di ridurre il contenzioso, favorendo procedure che consentissero l’incontro delle parti e quella che noi legali chiamiamo definizione bonaria delle controversie». Così mentre nei primi otto mesi del 2016 i licenziamenti sui contratti a tempo indeterminato passavano, secondo l’Inps, dai 304.437 (+31%), anche per via dei licenziamenti per giusta causa, passati dai 36.048 del 2015 ai 46.255 (+28 %), il ricorso al giudice si è andato riducendo. Il lavoratore oggi ci pensa bene ad andare in tribunale. Soprattutto per paura di non vincere la causa e di dover pagare anche le spese legali. Inoltre, con la riforma Fornero del 2012 e poi ancora di più con il Jobs Act del 2015, le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato illegittimamente sono state limitate. «La riforma Fornero ha modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prevedendo anche l’ipotesi di risarcimento economico e non solo la reintegrazione nel posto di lavoro. E questo anche nel caso in cui il giudice riconosca l’illegittimità di un licenziamento», spiega l’avvocato. Con il Jobs Act del 2015, il legislatore ha reso ancora più difficile per il dipendente riottenere il suo posto di lavoro, «prevedendo che, di norma, se licenziato abbia diritto ad una indennità economica e, solo in casi gravi come ad esempio per l’ipotesi di discriminazione, il giudice possa disporre la reintegrazione». Inoltre, le indennità economiche che il lavoratore può ottenere sono predeterminate dalla legge e sottratte alla valutazione del giudice. Così, sempre più spesso, i termini del licenziamento vengono contrattati in sede extragiudiziale. E il datore di lavoro oggi è la parte più forte. Non solo i lavoratori, anche i giuslavoristi pagano, in un certo senso, le spese di questa riforma. «L’estensione delle assunzioni con contratti a tutele crescenti, secondo alcuni colleghi, limiterà ulteriormente il ricorso ai tribunali». Certo è probabile che cresceranno i processi per licenziamento discriminatorio. Ma di sicuro il lavoratore esce indebolito da questa situazione. Di recente poi, è intervenuta anche una sentenza della Corte di Cassazione che ha destato un grande interesse da parte degli imprenditori che si sono rivolti agli avvocati per capirne la portata. Una decisione che ha fatto molto scalpore: quella sul licenziamento di un dipendente non per difficoltà economiche di un’azienda ma per accrescere il profitto del datore di lavoro. «La sentenza a mio avviso commenta però De Luca ha suscitato un ingiustificato clamore, in quanto, con un’interpretazione più aderente alla legge 604 del 1966 a cui si riferisce, esprime un orientamento non nuovo della Suprema Corte». Secondo il legale, la pronuncia non fa altro che richiamare «due orientamenti prevalenti sul tema della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo optando per una soluzione più aderente al dettato normativo».

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