L’uso di sistemi di intelligenza artificiale è sempre più diffuso nelle selezioni del personale: le impostazioni però devono rispettare determinati criteri e i diritti legati alla privacy.

L’intelligenza artificiale (IA) sta giocando un ruolo sempre più importante nella fase di recruitment, offrendo nuove opportunità e sfide per i processi di selezione del personale.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella fase prodromica del rapporto di lavoro sta acquistando una sempre maggiore importanza nelle seguenti attività:
– Screening dei curricula: l’IA può essere usata per eseguire il primo screening dei curriculum vitae ricevuti per una posizione lavorativa. Tramite l’apprendimento automatico e l’analisi dei dati, l’IA può identificare le competenze, le esperienze e le qualifiche rilevanti per il ruolo in questione, riducendo il tempo e lo sforzo necessari per effettuare una preselezione manuale;
– Analisi dei profili dei candidati: l’IA può analizzare i profili dei candidati presenti su piattaforme online come LinkedIn o siti di recruiting, estrarre informazioni pertinenti come le competenze, l’esperienza lavorativa, le certificazioni e altre informazioni di contatto. Ciò può aiutare le funzioni Hr delle aziende a identificare i candidati più adatti per un determinato ruolo, accelerando il processo di selezione;
– Colloqui iniziali e valutazione delle competenze: alcune aziende stanno sperimentando l’uso di chatbot o assistenti virtuali basati sull’IA per condurre interviste iniziali con i candidati. Questi sistemi possono porre domande predefinite, analizzare le risposte dei candidati e fornire un punteggio o una valutazione in base alle risposte date. Ciò consente di standardizzare il processo di intervista e di filtrare ulteriormente i candidati prima delle fasi di selezione successive;
– Analisi predittiva: l’IA può essere utilizzata per analizzare grandi quantità di dati storici e identificare modelli o tendenze che possono aiutare a prevedere le prestazioni future di un candidato. Ad esempio, l’IA può identificare i tratti di personalità, le esperienze o le competenze che sono correlati a un successo lavorativo in determinati ruoli o settori. Ciò può essere utilizzato come un fattore aggiuntivo nella valutazione dei candidati.
La percezione diffusa è che tali procedure automatizzate siano più rapide, affidabili ed economiche rispetto alle selezioni “canoniche”, consentendo di individuare efficacemente le caratteristiche e le attitudini personali dei candidati tramite l’analisi di una grande mole di dati raccolti durante le interviste virtuali.

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Con la recente sentenza del 21 marzo 2023, il Tribunale di Forlì ha confermato la legittimità della clausola penale apposta alla lettera di assunzione per il caso in cui il lavoratore non prenda servizio alla data di inizio dell’attività lavorativa concordata dalle parti, anche quando l’assunzione sia soggetta ad un periodo di prova.

I fatti di causa

Una società stipulava con un dirigente una lettera di impegno all’assunzione soggetta a un periodo di prova di sei mesi. La lettera di impegno conteneva la seguente clausola: “Qualora Lei non prendesse effettivo servizio alla prevista data del 15 ottobre 2020, per Sua iniziativa e/o per qualsiasi motivo a Lei imputabile, Lei sarà tenuto a versare alla nostra Società, a titolo di penale, una somma corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso prevista in caso di licenziamento dal Contratto Collettivo applicato. Il pagamento alla nostra società dovrà avvenire entro e non oltre 10 giorni dal verificarsi dell’atto di violazione della clausola di rispetto della data concordata di presa servizio. Verificandosi tale fattispecie, il presente contratto dovrà ritenersi definitivamente risolto di diritto”.

Circa un mese prima della data prevista per l’inizio dell’attività lavorativa, il dirigente informava la Società della propria intenzione di non procedere all’assunzione.

La Società ricorreva per ingiunzione avanti al Tribunale di Forlì che, nell’accogliere la domanda, emetteva decreto ingiuntivo per l’importo dalla penale pattuita dalle parti.

Avverso il decreto ingiuntivo, il dirigente proponeva opposizione sulla scorta dei seguenti motivi:

  1. la comunicazione del dirigente di non voler procedere con l’assunzione doveva qualificarsi come atto di recesso dal contratto di lavoro e il relativo recesso doveva considerarsi svincolato da qualsiasi conseguenza, in quanto il contratto prevedeva un periodo di prova, durante il quale vige il regime di libera recedibilità ai sensi dell’art. 2096 c.c;
  2. il dirigente aveva comunicato la propria decisione con congruo preavviso tale da evitare un effettivo pregiudizio alla società. L’assenza di danno in capo alla società avrebbe dovuto comportare, secondo la difesa del dirigente, l’assenza del diritto alla corresponsione della penale o, in via subordinata, la riduzione equitativa della stessa ai sensi dell’art. 1384 c.c.

La sentenza resa dal Tribunale di Forlì

Il Giudice del Lavoro di Forlì, nel rigettare l’opposizione del dirigente, ha confermato il decreto ingiuntivo emesso.

Il Tribunale ha fondato il proprio convincimento sulla differenza intercorrente tra la stipulazione del contratto e l’inizio del rapporto, individuando tale secondo momento come rilevante per poter invocare il regime speciale di libera recedibilità previsto per il periodo di prova.

La disciplina dell’art. 2096 c.c. inizia infatti ad operare solo con l’effettiva presa di servizio e a condizione che le parti abbiano consentito l’esperimento che forma oggetto della prova, elementi che, nel caso di specie, non si erano verificati per via del rifiuto del dirigente. Tale rifiuto non poteva dunque qualificarsi come recesso in prova bensì come inadempimento dell’obbligo di prendere servizio alla data prestabilita.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Giudice ha quindi ritenuto infondata l’eccezione di incompatibilità della penale con la previsione del patto di prova. Le due previsioni, infatti, “hanno oggetto e finalità differenti e, nel caso di specie, sono volte a tutelare due momenti differenti del rapporto di lavoro”.

Il Giudice ha poi ritenuto irrilevante la tempestività della comunicazione del ripensamento da parte del dirigente in quanto “invocata da una parte contrattuale che è in ogni caso inadempiente e che è tenuta come tale a risarcire il danno ad essa imputabile”.

Da ultimo, con riferimento alla quantificazione della penale, il Tribunale ha disatteso altresì la domanda di riduzione equitativa ex art. 1384 c.c., articolata in via subordinata dal dirigente, sottolineando come questa non risultasse eccessiva né al momento della pattuizione né alla data dell’inadempimento, avendo la società dimostrato di aver sostenuto costi rilevanti per far fronte all’impatto organizzativo determinato dalla scopertura in un ruolo strategico (Direttore Amministrativo).

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Il recesso dal patto di prova: profili di legittimità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17167/2020, ha considerato legittima la procedura di selezione del personale che richiede ai candidati coinvolti l’esibizione del certificato dei carichi pendenti.

I fatti di causa

I fatti esaminati riguardavano la mancata assunzione da parte di una azienda di un candidato che già in precedenza aveva lavorato presso la stessa in forza di un contratto a tempo determinato. Nello specifico, il lavoratore, allo scadere del primo contratto, aveva manifestato il proprio interesse per una differente posizione per la quale aveva intrapreso l’iter di selezione, sottoscrivendo un “format di dichiarazione di individuazione della posizione lavorativa di interesse”. In esso si dava atto, tra le altre, che l’assunzione sarebbe stata subordinata alla presentazione di tutta la documentazione prevista dal CCNL di settore. Tra la documentazione richiesta dall’azienda vi era il certificato dei carichi pendenti che il candidato si era rifiutato di presentare.

Il Tribunale e la Corte d’Appello aditi dal lavoratore avevano rilevato che il Ccnl di settore non elencava il certificato dei carichi pendenti tra i documenti da presentare durante la fase di selezione. Alla luce di ciò la società non avrebbe potuto considerare la presentazione dei carichi pendenti come condizione ostativa all’assunzione del candidato.

Avverso la decisione di merito la società soccombente ricorreva in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha assunto una posizione opposta rispetto ai giudici di merito, affermando che al datore di lavoro deve sempre essere consentito effettuare una valutazione libera circa l’idoneità del candidato a ricoprire le mansioni richieste per la posizione oggetto della selezione. La determinazione datoriale del requisito di presentazione dei carichi pendenti, secondo i giudici di legittimità, è coerente con i generali principi di correttezza e buona fede che governano lo svolgimento anche della fase precontrattuale nella materia del lavoro. Pertanto, il riconoscimento del diritto di verifica delle idoneità del candidato non può essere limitato dalla mancanza di una specifica previsione del contratto collettivo nazionale applicato al caso di specie.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto, quindi, come legittima la decisione della società di non procedere all’assunzione del candidato, a fronte della mancata consegna del certificato di carichi pendenti. Ciò in quanto quest’ultimo non sarebbe risultato in possesso dei requisiti di idoneità utili a soddisfare le esigenze di affidabilità necessarie a ricoprire la funzione oggetto di selezione.

Secondo i giudici della Corte Cassazione, quindi, il datore di lavoro può unilateralmente formulare la richiesta di presentazione di determinati documenti purché siano funzionali a valutare l’idoneità o meno del candidato rispetto alla posizione da ricoprire. Tale determinazione non è infatti contraria ai principi di correttezza e buona fede che devono governare anche la fase precontrattuale del processo di selezione.

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