Al dipendente che effettua un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore, deve essere riconosciuto il buono pasto sostitutivo se non può usufruire del servizio mensa ovvero se, per ragioni di servizio, non riesce ad effettuare la pausa.

È questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 5547 del 1° marzo 2021, tornando nuovamente ad affrontare la tematica dei buoni pasto, fa chiarezza su un aspetto lacunoso della contrattazione collettiva del comparto Sanità, formando un importante precedente per le aziende sanitarie che non riconoscono al personale turnista la pausa, in nome della continuità del servizio da garantire.

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo ad un dipendente di una azienda ospedaliera che svolgeva un turno pomeridiano di 7 ore (dalle 13:00 alle 20:00) ed un turno serale di 11 ore (dalle 20:00 alle 7:00). Il dipendente, infatti, non poteva usufruire del servizio di mensa offerto dall’azienda ospedaliera in quanto l’attività di assistenza dallo stesso prestata non poteva essere sospesa e in ogni caso non era previsto un servizio di mensa serale.

Il Tribunale e la Corte d’Appello di Messina accolgono il ricorso del dipendente accertando il diritto di quest’ultimo a vedersi riconosciuti i buoni pasto per ogni turno di lavoro che eccedeva le 6 ore, nonché il risarcimento del danno per aver provveduto a proprie spese al pasto giornaliero.

In particolare, secondo la Corte territoriale il diritto al riconoscimento dei buoni pasto trova fondamento dal combinato disposto dell’art. 29, comma 2, del contratto collettivo integrativo del comparto Sanità e dell’art. 8 del Decreto Legislativo 66/2003 dai quali si evince che il diritto alla mensa deve essere identificato con il diritto alla pausa e che, pertanto, deve essere riconosciuto a tutti i dipendenti che effettuano un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore.

L’azienda ospedaliera presenta ricorso in Cassazione sulla base di un unico motivo di diritto, per avere la Corte d’Appello, con la sentenza impugnata, erroneamente configurato il diritto alla pausa con il diritto alla mensa. L’azienda, in particolare, deduce, da un lato, che il criterio per riconoscere il diritto alla mensa è l’impossibilità di pranzare fuori dal luogo di lavoro in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro e, dall’altro, che l’art. 8 del D.lgs. 66/2003 disciplina esclusivamente il diritto alla pausa e non anche il diritto alla mensa, essendo di fatto solo una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha affermato che i buoni pasto non hanno natura retributiva e che, di conseguenza, la loro erogazione può essere unilateralmente interrotta dal datore di lavoro.

I fatti di causa

La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso depositato da un lavoratore presso il competente tribunale affinché venisse (i) dichiarata illegittima la decisione unilaterale della propria datrice di lavoro di interrompere l’erogazione dei buoni pasto e, conseguentemente, (ii) la stessa condannata al pagamento in suo favore delle relative differenze retributive.

Avverso la decisione di rigetto del suo ricorso, il lavoratore adiva la Corte d’appello che confermava detta decisione. Il lavoratore ricorreva così in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito secondo cui i buoni pasto non rappresentano un elemento della retribuzione, ma un’agevolazione di carattere assistenziale connessa al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale.

Pertanto, non rientrando nel trattamento retributivo in senso stretto, l’erogazione dei buoni pasto può essere variata anche per unilaterale decisione datoriale non formalizzata in un accordo sindacale, in quanto “previsione di un atto interno”.

L’ordinanza aggiunge che neppure può essere opposto alla parte datoriale la reiterata erogazione dei buoni nel tempo, anche nell’ipotesi in cui la stessa abbia configurato una prassi aziendale.

In conclusione, la Suprema Corte a fronte di tali presupposti ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la legittimità dell’operato del datore di lavoro.

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