Con la recentissima sentenza n. 11344 del 30 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che i procedimenti giudiziali introdotti con il c.d. Rito Fornero prima del 28 febbraio 2023 continuano ad essere disciplinati, anche nelle fasi di impugnazione, dalle disposizioni dettate dal medesimo rito, sebbene lo stesso sia stato abrogato dalla c.d. Riforma Cartabia.
Successione di norme processuali in materia di impugnazione del licenziamento e regime transitorio
Il c.d. “rito Fornero” era stato introdotto dalla legge n. 92/2012 (art. 1, commi 47 – 69) per rispondere alla necessità di assicurare celerità nella risoluzione delle controversie in materia di licenziamento.
Se le intenzioni del legislatore erano condivisibili, sin dalle prime applicazioni erano apparsi evidenti i vizi genetici di quella traduzione normativa.
Infatti, il rito Fornero, applicabile soltanto ai licenziamenti disciplinati dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, implicava che la domanda giudiziale potesse riguardare solamente la legittimità del licenziamento e le questioni “fondate sui medesimi fatti costitutivi”. Ciò ha comportato, da un lato, dubbi interpretativi sulle domande ammissibili con tale rito e, dall’altro, un frazionamento delle domande giudiziali connesse al rapporto lavorativo, con conseguente inevitabile proliferazione del contenzioso giudiziario.
Inoltre, il procedimento prevedeva lo svolgimento di due fasi in primo grado davanti allo stesso giudice del lavoro: una prima, c.d. sommaria, introdotta con sostanziale libertà di forma e definita con ordinanza, e una seconda fase di opposizione, a cognizione piena, definita con sentenza.
Al fine di assicurare la celerità del procedimento, il rito Fornero aveva altresì introdotto nuovi termini di impugnazione.
In particolare, la sentenza pronunciata nella fase di opposizione poteva essere impugnata con reclamo dinanzi alla Corte d’Appello entro il termine decadenziale di trenta giorni, decorrente dalla comunicazione del provvedimento a cura della cancelleria o dalla notificazione ad opera della controparte, se anteriore. Con riferimento poi al giudizio di legittimità, l’articolo 1 comma 62 della legge n. 92/12, prevedeva che “il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore”.
La previsione di un termine (di durata pari a quelli brevi dettati dall’art. 325 c.p.c.) con decorrenza non solo da un atto di iniziativa di parte (la notifica), ma altresì da un fattore esterno alle parti stesse (la comunicazione da parte della Cancelleria) aveva, di fatto, limitato (se non addirittura azzerato) la possibilità, nell’ambito del c.d. rito Fornero, di beneficiare del c.d. termine lungo di impugnazione, pari a 6 mesi, previsto dall’art. 327 c.p.c.
La riflessione sulla evidente scarsa efficacia del rito Fornero, quanto alla possibilità di spiegare quell’effetto deflattivo prefisso, aveva condotto il legislatore già ad un suo “ridimensionamento applicativo” ad opera del D.Lgs. n. 23/2015, che ne aveva escluso l’applicazione ai licenziamenti soggetti al regime delle c.d. “tutele crescenti”, per tutti i rapporti di lavoro instaurati dal 7 marzo 2015.
Del resto, il cd. Rito Fornero non era mai stato particolarmente apprezzato da parte degli addetti ai lavori e ne era stata proposta l’abrogazione anche da parte della «Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi» (istituita presso il Ministero della Giustizia con D.M.12 marzo 2021) e ciò con il duplice fine di “semplificare e chiarire il quadro normativo della disciplina processuale nella materia dei licenziamenti” e di “superare le difficoltà interpretative e applicative che ha fatto emergere l’articolo 1, commi 48 ss., della legge 12 giugno 2012, n. 92, fin dalla sua introduzione, con inevitabili ricadute per i rapporti fra datore di lavoro e lavoratore”.
Il D.Lgs. n. 149/2022 (art. 3, co. 32) – la c.d. Riforma Cartabia – ha cambiato nuovamente le regole processuali afferenti i licenziamenti, attraverso, da un lato, l’introduzione degli artt. 441 bis, ter e quater al codice di procedura civile, che confermano ancora una volta l’attualità della ricerca della celerità della risoluzione delle controversie in materia di licenziamenti e, dall’altro, con l’abrogazione del rito Fornero.
Proprio con riferimento all’abrogazione dei commi da 47 a 69 dell’art. 1 della legge n. 92/2012 (art. 37 del D.Lgs. n. 149/2022), la Riforma Cartabia ha altresì previsto un regime transitorio, descritto all’art. 35 della novella legislativa.
Tale norma prevede, al comma 1, che “le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 ([1]) e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”.
Con riferimento al primo comma dell’articolo in commento, la Relazione Illustrativa che accompagna il testo della riforma ha precisato che “In via generale, l’articolo 35 prevede al comma 1, al fine di consentire un avvio consapevole, da parte degli operatori, delle novità normative, che le disposizioni recate dal decreto legislativo hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data, con la precisazione – a fugare possibili dubbi interpretativi – che ai procedimenti pendenti a quella data continuano ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti”.
Così facendo, prosegue la Relazione, “ci si è assicurati che l’abrogazione delle norme preesistenti e l’applicazione delle nuove norme (si pensi, ad esempio, all’abrogazione del c.d. “rito Fornero” e alle nuove disposizioni in tema di procedimenti di impugnazione dei licenziamenti) operino contestualmente“.
Fermo quanto sopra, occorre rilevare che l’articolo 35 della Riforma Cartabia, prevede, al quarto comma, che “Le norme dei capi I e II del titolo III del libro secondo e quelle degli articoli 283, 434, 436-bis, 437 e 438 del codice di procedura civile, come modificati dal presente decreto, si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023”.
Ebbene – per quanto qui di interesse – il quarto comma sopra citato richiama gli articoli 434, 436-bis, 437 e 438 del codice di procedura civile (che, come noto, disciplinano il ricorso in appello relativo alle controversie individuali di lavoro), statuendo che le novità legislative modificative di tali articoli “si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023”.
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Il termine ultimo – di giorni quindici dalla comunicazione dell’impugnativa di licenziamento – per la revoca del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 10, della l. n. 300 del 1970, introdotto dalla legge n. 92 del 2012) va individuato nel momento di invio della comunicazione al lavoratore e non in quello della sua acquisita conoscenza, perché l’atto di autotutela del datore costituisce esercizio di un diritto potestativo che produce in via immediata la modifica della sfera giuridica del destinatario.
Con la recente ordinanza n. 16630 del 14 giugno 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che – affinché si producano gli effetti ripristinatori del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 18, comma 10, Stat. Lav. – è sufficiente che il datore di lavoro invii la comunicazione di revoca del licenziamento entro quindici giorni dall’intimazione del recesso, non essendo necessario che tale comunicazione venga ricevuta dal dipendente nel medesimo arco temporale.
La disciplina della revoca del licenziamento ha subìto una radicale riforma a seguito delle modifiche introdotte dalla cd. Riforma Fornero, ossia dalla L. 28.6.2012, n. 92, entrata in vigore il 18.7.2012.
Prima dell’introduzione di tali disposizioni – che sono state, peraltro, riprese anche dal D.Lgs. 4.3.2015, n. 23, in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – la revoca del licenziamento era soggetta ai principi generali di natura civilistica e poteva essere comunicata al dipendente in qualunque forma e in qualsivoglia momento, con effetti diversi a seconda del momento in cui la revoca veniva conosciuta dal lavoratore.
Ed infatti, il datore di lavoro poteva revocare il licenziamento prima che la comunicazione di recesso giungesse all’indirizzo del lavoratore: in questo caso, per applicazione del principio generale di cui all’articolo 1328, cod. civ., il licenziamento non avrebbe prodotto alcun effetto. È il caso, ad esempio, del datore di lavoro che comunica il licenziamento al dipendente a mezzo raccomandata e, prima che la lettera venga recapitata all’indirizzo del destinatario, il datore gli spedisce un telegramma o una raccomandata veloce contenente la revoca del licenziamento.
Diverso, invece, è il caso della revoca del recesso datoriale giunta nella sfera di conoscenza del dipendente dopo che gli era stata notificata – in forma scritta – la volontà del datore di risolvere il rapporto. In tal caso, considerato che lo scopo della revoca del licenziamento è quello di ripristinare il rapporto di lavoro, ormai estinto per effetto del licenziamento intimato, la giurisprudenza riteneva che la revoca fosse da considerare alla stregua di una nuova proposta contrattuale avente ad oggetto, per l’appunto, la ricostituzione del rapporto di lavoro e l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’interruzione del rapporto stesso. Per tale motivo la revoca necessitava dell’accettazione da parte del lavoratore.
La L. 92/2012 ha formalmente introdotto, per la prima volta, una disciplina speciale della revoca del licenziamento, derogando ai principi generali di diritto civile sopra richiamati, in base ai quali il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, una volta giunto a destinazione non è più revocabile senza l’accettazione da parte del lavoratore, e attribuendo al datore di lavoro un diritto potestativo di ripensamento, da esercitare entro un termine perentorio, con conseguente ricostituzione del rapporto senza possibilità per il lavoratore di opporsi.
Nello specifico, con l’articolo 1, comma 42, lettera b), L. 92/2012, è stato introdotto, nell’articolo 18, L. 300/1970, il comma 10, che dispone quanto segue: “Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo”.
La ratio di tale disciplina consiste “sia in un effetto deflattivo del contenzioso, sia nel consentire al datore di lavoro, oltre che nei casi di ripensamento sostanziale della propria decisione, di ritirare facilmente licenziamenti che presentino vizi formali o di procedura, evitando così di incorrere nelle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18 della legge 300/1970” (Trib. Monza, 29 gennaio 2014. Negli stessi termini: Cass. Civ., Sez. lav., 21 maggio 2018, n. 12448).
Conseguentemente, con la revoca disposta dal datore entro il termine perentorio di 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento, il lavoratore ha diritto alla sola ricostituzione del rapporto di lavoro con efficacia retroattiva alla data del recesso, e alla rimozione del danno subìto consistente nella perdita della retribuzione che avrebbe nel frattempo maturato dalla data del recesso sino a quella dell’intervenuta revoca del licenziamento, rimanendo espressamente esclusa l’applicazione dei regimi sanzionatori previsti per il recesso illegittimo dall’articolo 18, L. 300/1970.
Occorre precisare che la giurisprudenza ha, invece, escluso la ricostituzione automatica del rapporto di lavoro nel caso in cui la revoca del licenziamento, effettuata entro il termine di 15 giorni dall’impugnazione, contenga anche diverse condizioni contrattuali, come ad esempio un mutamento della sede di lavoro, poiché non si è in presenza di una semplice revoca, ma di una nuova proposta contrattuale per la quale occorre il consenso del lavoratore (Tribunale Vigevano, 25 marzo 2013).
La revoca del licenziamento è, dunque, oggi, un negozio tipico e nominato, espressione di un diritto potestativo attribuito al datore di lavoro, diritto il cui esercizio determina la ricostituzione ex tunc del rapporto.
Il testo dell’art. 18 comma 10 è quasi del tutto identico a quello dell’art. 5 del D.Lgs. 23/2015 (relativo ai dipendenti soggetti alla disciplina del c.d. Jobs Act), rinvenendosi, quale unica differenza, il rinvio a diversi sistemi sanzionatori del recesso.
Con lettera del 17 gennaio 2018, una dipendente veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. La lavoratrice impugnava il recesso con comunicazione trasmessa alla società a mezzo pec il 13 febbraio 2018, ricevuta dal datore di lavoro in pari data.
Il successivo 1° marzo la dipendente riceveva un telegramma, inviatole dalla società il 28 febbraio, avente ad oggetto la revoca del licenziamento e contenente l’invito a riprendere servizio.
La dipendente contestava la tardività della revoca e non adempiva all’invito del datore di lavoro.
A causa dell’assenza ingiustificata della lavoratrice protrattasi per oltre tre giorni, la società le intimava il recesso per giusta causa.
La dipendente agiva in giudizio eccependo la tardività della revoca del primo licenziamento, in quanto la relativa comunicazione era stata da lei ricevuta oltre il termine di 15 giorni decorrente dell’impugnazione del recesso.
Il tribunale nonché la corte d’appello, nel rigettare le domande della ricorrente, precisavano che la revoca del primo licenziamento era da considerarsi tempestiva, in quanto non si era verificata alcuna decadenza, dovendosi applicare – in tema di revoca del recesso – il principio di scissione degli effetti dell’atto inviato e ricevuto.
La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, preliminarmente, che l’istituto della revoca del licenziamento, introdotto della L. 92/2012 e disciplinato dall’articolo 18, comma 10, Stat. Lav., è un diritto potestativo del datore di lavoro cui soggiace il lavoratore.
Secondo i Giudici di legittimità, trattasi di una sorta di autotutela, esercitabile dal datore di lavoro, che determina il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità e senza che sia necessario il concorso di una analoga manifestazione di volontà da parte del dipendente.
Unica condizione necessaria stabilita dalla norma è che detta revoca sia effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro della impugnazione del licenziamento.
Partendo, dunque, dall’analisi del testo letterale della norma – che àncora il dies a quo alla comunicazione dell’impugnativa di licenziamento e il dies ad quem all’effettuazione della revoca – i giudici di legittimità hanno statuito che, l’assenza di un espresso riferimento alla comunicazione all’interessato, “induce a ritenere sufficiente il mero invio della revoca al lavoratore nel termine prescritto e non anche la ricezione da parte dello stesso nel medesimo termine”.
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In data 16 giugno 2021, Confcommercio Imprese per l’Italia e Manageritalia hanno sottoscritto un accordo per la proroga sino al 31 dicembre 2021 dell’attuale vigenza del CCNL del 21 luglio 2016. Con lo stesso accordo le Parti Sociali hanno modificato alcune previsioni relativi ad istituti regolati dal CCNL stesso. Entrando nel dettaglio delle principali novità, viene confermata la durata massima del periodo di comporto in 240 giorni in un anno solare con la precisazione che per “anno solare” s’intende il periodo a ritroso di 365 giorni rispetto all’ultimo evento morboso. Inoltre, dal 1° luglio 2021, il datore di lavoro dovrà corrispondere al CFMT (Centro di Formazione Management del Terziario), un contributo pari a 2.500 Euro – in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, anche a seguito di accordo transattivo o conciliazione, fatta eccezione per le ipotesi di cessazione per giusta causa, licenziamento disciplinare, dimissioni volontarie e risoluzione consensuale – per l’attivazione di un servizio di outplacement o per l’accesso a programmi di politiche attive finalizzate alla ricollocazione dei dirigenti. Vengono anche introdotte novità con riferimento ai termini di decorrenza del periodo di preavviso in caso di dimissioni o licenziamento. Per quanto riguarda le dimissioni, a far data dal 1° luglio 2021 il periodo di preavviso decorre dal 1° o dal 16° giorno di ciascun mese, a seconda che la comunicazione delle dimissioni pervenga al datore di lavoro, rispettivamente, nella seconda quindicina del mese antecedente o nella prima quindicina del mese corrente. Ugualmente, a far data dal 1° luglio 2021, il periodo di preavviso in caso di licenziamento decorre dal 1° o dal 16° giorno di ciascun mese a seconda che la comunicazione di licenziamento pervenga al dirigente, rispettivamente, nella seconda quindicina del mese antecedente o nella prima quindicina del mese corrente. Il dirigente avrà, altresì, diritto a percepire per intero la retribuzione ad egli spettante per la frazione di mese in cui è stata ricevuta la comunicazione di licenziamento.
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Revirement del Tribunale di Roma: il blocco dei licenziamenti non si applica ai dirigenti
I dirigenti apicali che non godono delle ferie non hanno diritto alla relativa indennità sostitutiva
Il vero problema del nostro sistema: l’assenza di un serio progetto di politiche attive del lavoro. L’avvocato Vittorio De Luca, managing partner dell’omonimo studio entra nel merito dell’intesa sulla fine del blocco
dei licenziamenti e sul decreto legge 99/2021, appena approvato dal governo Draghi. «Il rischio di una esplosione dei licenziamenti altro non è che la conseguenza di un divieto che si è protratto troppo a lungo. Ulteriori proroghe generalizzate non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione. Il blocco non ha permesso alle imprese di rinnovarsi per un arco temporale decisamente troppo ampio, paralizzando così i processi di riallocazione dei lavoratori. Finalmente ora potranno ripartire e movimentare nuovamente il mercato e l’occupazione».
Altro tema caldo sul tavolo è la riforma degli ammortizzatori sociali più volte annunciata e sempre più necessaria nel post pandemia. «Il sistema degli ammortizzatori, dopo la riforma del 2015, risulta frastagliato e non in grado di tutelare tutte le categorie colpite dalla recessione e di erogare prestazioni economiche tali da rappresentare un decisivo e duraturo sostegno. La pandemia ha dunque mostrato in modo evidente tutti i limiti del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Risulta indispensabile,
quindi, procedere con una riforma organica quanto prima».
Il governo ha raggiunto una intesa con le parti sociali in merito al blocco dei licenziamenti. «L’intesa prevede un “impegno” a far ricorso a tutti gli ammortizzatori sociali esistenti prima di ricorrere ai licenziamenti; tuttavia
rappresenta una mera forma di moral suasion. Di tale impegno, inoltre, non viene fatto cenno nel testo del nuovo decreto. Certamente, si tratta di una magra consolazione per chi chiedeva a gran voce di prorogare ulteriormente il divieto di licenziamento».
Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 3605 del 19 aprile 2021, si è nuovamente pronunciato in merito all’estensione o meno del blocco dei licenziamenti, disposto dall’art. 46 del Decreto Cura Italia e confermato dai successi provvedimenti emergenziali, al personale dirigenziale. Nello specifico il Tribunale – contrariamente alle conclusioni a cui era giunto il precedente 26 febbraio – ha statuito che “il dato letterale della norma, in uno con la filosofia che la sorregge, non consente di ritenere che la figura del dirigente possa essere ricompresa nel blocco“.
Per far fronte ad una situazione di crisi, aggravata dalle conseguenze dell’emergenza pandemica, una società, con comunicazione del 29 aprile 2020, aveva licenziato il proprio Chief Operating Officer per soppressione della posizione, con ridistribuzione delle funzioni allo stesso assegnate tra altri responsabili aziendali.
Il dirigente aveva impugnato il recesso eccependo, da un lato, la sua nullità per violazione dell’art. 46 del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) sull’assunto che il divieto di licenziamento individuale introdotto dalla normativa emergenziale dovesse applicarsi anche al personale dirigenziale e, dall’altro, l’illegittimità dello stesso.
Nel rigettare il ricorso promosso dal dirigente, il Tribunale di Roma ha preliminarmente rilevato che l’art. 46 del Decreto Cura Italia – così come i successivi provvedimenti emergenziali che hanno prorogato il blocco dei licenziamenti – ha espressamente escluso la possibilità di intimare recessi per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/66.
Orbene, sulla base del tenore letterale della norma e sull’assunto che l’art. 3 della Legge 604/66 non si applica ai dirigenti, sia per espressa previsione normativa (art. 10 L. 604/66) che per costante orientamento giurisprudenziale, il Tribunale ha escluso che la figura dirigenziale possa essere ricompresa nel blocco dei licenziamenti.
Il Tribunale ha poi rilevato la “chiara ed evidente simmetria” tra il blocco dei licenziamenti e il ricorso agli ammortizzatori sociali, che ha consentito in maniera pressoché generalizzata alle aziende la possibilità di ridurre il costo del lavoro per far fronte alle perdite. Simmetria confermata, oltretutto, dalla possibilità per i dator di lavoro, introdotta sempre dall’art. 46 del Decreto Cura Italia al comma 1-bis, di revocare i licenziamenti già intimati prima del blocco purché contestualmente venisse fatta richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale.
In ogni caso, a parere del Tribunale, il binomio “divieto di licenziamento” e “ricorso agli ammortizzatori sociali” non regge con riferimento ai dirigenti, in quanto agli stessi non è consentito, in costanza di rapporto, di beneficiare degli ammortizzatori sociali. Un’interpretazione che consentisse di includere il personale dirigenziale nel blocco dei licenziamenti presenterebbe profili di incostituzionalità, in quanto lascerebbe a carico del datore di lavoro gli oneri del rapporto di lavoro dirigenziale pur in presenza di una giustificatezza del recesso.
Il Tribunale ha, inoltre, ritenuto di non poter giungere a conclusioni diverse neppure in ragione dell’ordinanza del medesimo Tribunale del 26 febbraio 2021, a parere della quale il divieto si estenderebbe ai dirigenti poiché “secondo una ‘interpretazione costituzionalmente orientata’ non si capirebbe l’esclusione dei dirigenti dal blocco visto la ratio della norma che è quella di impedire il licenziamento in generale senza distinzione di sorta“.
Con la pronuncia in esame, il Tribunale non ha neanche condiviso l’ulteriore motivazione contenuta nell’ordinanza del 26 febbraio scorso secondo cui sarebbe irragionevole non includere i dirigenti nel divieto poiché protetti dalla disciplina del licenziamento collettivo. Ed infatti, con la sentenza in commento, il Tribunale ha statuito che la diversità tra fattispecie giustifica una diversità di trattamento e non può costituire valido motivo per estendere il beneficio del blocco al licenziamento individuale del dirigente.
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Il percorso logico-giuridico che ha condotto il Tribunale ad escludere l’estensione del blocco dei licenziamenti al personale dirigenziale può risultare condivisibile, poiché in linea con le previsioni di legge e con la ratio dell’intero impianto normativo emergenziale.
Non può non riflettersi, tuttavia, sulla circostanza che la giurisprudenza di merito sino ad oggi intervenuta sull’interpretazione della medesima fonte normativa, sia giunta a soluzioni diametralmente opposte, con una conseguente incertezza per le aziende circa gli esiti e costi dell’eventuale licenziamento delle figure apicali.
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